Dare respiro ai salari, farli crescere. E cambiare il sistema della contrattazione. Nell’industria funziona, ma nel terziario, che è sempre più vasto, le vecchie regole non funzionano più. Occorre individuare un diverso sistema contrattuale che tenga conto del peso del terziario. Per questo è un bene che il confronto interconfederale in corso sia stato allargato a Confcommercio. Per Paolo Pirani, consigliere Cnel, per tanti anni ai vertici della Uil, non c’è più tempo da perdere.
Pirani, sono in crisi le relazioni industriali?
Bene non stanno, ma per avere un’idea della nostra situazione occorre allargare lo sguardo.
In quale direzione?
Dobbiamo guardare con più attenzione cosa accade all’economia.
Stiamo messi male?
Le agenzie di rating ci riconoscono performances di un certo livello. Giorgetti può vantarsi di essere il migliore ministro dell’Economia del sistema europeo. I conti in realtà sono a posto, ma il Pil diminuisce ed è compromesso il profilo industriale del nostro paese. Ancora, pesa la continua erosione a opera del sistema fiscale e una certa opacità del recupero del potere di acquisto dei salari.
Un quadro pesante.
È la nostra realtà. Siamo l’unico paese a non aver riportato i salari al livello precovid. I salari italiani sono i più bassi e i più tassati. La situazione è compromessa, anche perché è sempre più difficile mantenere il livello delle esportazioni per ragioni geopolitiche che ci sfuggono di mano. I grandi paesi tendono a contrarsi al proprio interno, l’Europa non si è ripresa.
E l’Italia?
Non abbiamo una strategia, ci difettano le scelte industriali di fondo. Il governo afferma di voler rinvigorire il mercato interno, ma la domanda cala, si risparmia di più, si spende di meno.
Perché i salari perdono potere di acquisto?
Per due motivi. Il primo è l’incapacità di rinnovare i contratti di lavoro e quando lo si fa gli aumenti salariali non coprono l’inflazione. Poi c’è il drenaggio fiscale. Se i salari nominali crescono si raggiungono aliquote fiscali più elevate. Ancora, sempre perché crescono solo nominalmente i salari, si rischia di andare al di là delle soglie per godere di alcune prestazioni di welfare. Infine, occorre tenere presente un dato importante, la riduzione del peso dell’industria, un fenomeno che caratterizza tutto il mondo sviluppato. E questo crea dei problemi anche al modello contrattuale.
In che senso?
Nell’industria il problema si sente meno. Ci sono difficoltà, guarda la lentezza della trattativa per i metalmeccanici, ma nel complesso i contratti vengono rinnovati bene e velocemente. Ma nel terziario la situazione è molto diversa. I grandi contratti del settore sono stati rinnovati cinque anni dopo la loro scadenza e gli aumenti salariali non hanno recuperato quanto era stato eroso dall’inflazione.
Questo cosa comporta?
Che il governo deve tenere presente questa realtà. Forse, per esempio, è inutile ridurre l’Irpef, è meglio detassare gli aumenti salariali. Il drenaggio fiscale va eliminato e vanno indicizzate le quote che consentono l’accesso al welfare. Qualcuno vorrebbe detassare il welfare contrattuale, ma questo andrebbe bene per la sanità e la previdenza, per tutti gli altri interventi non funzionerebbe, serve un intervento universalistico.
E la contrattazione?
Il primo passo dovrebbe essere quello di trovare un meccanismo per indennizzare, ma veramente, i ritardi dei rinnovi contrattuali. Esiste un sistema di recupero, però del tutto inefficiente. Ma soprattutto bisogna prendere atto che non è possibile risolvere tutto con la contrattazione. Serve il salario minimo, serve un’indicizzazione degli accessi al welfare, va eliminato il drenaggio fiscale. Bisogna dare respiro all’aumento salariale, e poi bisogna rivedere la struttura contrattuale.
In quale direzione?
L’attuale sistema è tutto basato sull’industria. Hai il modello metalmeccanico, hai quello chimico, due modelli fratelli, che funzionano. Ma non puoi più basarti solo sull’industria, i numeri sono cambiati, devi guardare con sempre maggiore attenzione alla realtà del terziario. Dove, tra l’altro, rischia di cadere pesantemente la rappresentanza. C’è tutta un’area dove Cgil, Cisl e Uil non ci sono più o stentano. Per questo è molto importante che il confronto interconfederale in atto sia stato allargato a Confcommercio. Sulla questione salariale va fatto un patto che tenga conto del peso dei servizi e dia così una chiave di stabilità alle relazioni industriali.
Su cosa occorre costruire questo patto?
Si potrebbe dare pari dignità alla contrattazione di secondo livello, nel caso specifico alla contrattazione territoriale. Non dare nulla per scontato, guardare alla realtà, per esempio alla bilateralità, che funziona bene dove è sviluppata.
Chi è in grado di fare tutto ciò?
Le parti sociali devono capire che è arrivato il momento di cambiare e devono farlo bene. Ci possono riuscire.
Massimo Mascini