di Vincenzo Bavaro – Ricercatore in diritto del lavoro nell’Università di Bari
1. In Germania sembra essersi inaugurata una tendenza all’allungamento dell’orario di lavoro a parità di salario. In Francia da qualche anno è stata messa in discussione la disciplina legale sulle 35 ore di lavoro settimanali. In Italia la strada intrapresa – quantomeno sul piano legislativo – non è diversa, come cercherò di spiegare dopo. Sembrerebbe, dunque, che a fronte della parola d’ordine storica del movimento operaio (‘lavorare meno, lavorare tutti’) la realtà tende verso altre direzioni. Evidentemente si tratta di direzioni dettate da rapporti di forza che vengono storicamente a determinarsi e che ieri spingevano verso una riduzione dei tempi di lavoro, oggi verso un allungamento degli orari (quantomeno di quelli ‘di fatto’), domani chissà.
Il punto è che in questo andirivieni, il diritto del lavoro gioca un ruolo fondamentale. In particolare, mi riferisco alla regolazione giuridica del tempo della prestazione di lavoro,archetipo normativo della disciplina. Anzi, si può affermare con una buona dose di certezza che all’origine del diritto del lavoro c’è la regolazione giuridica della durata della giornata lavorativa. La legge c.d. ‘infame’ del 1886 (legge 11 febbraio 1886, n. 3657) è considerata – al di là di ogni polemica aggettivazione – come la prima espressione di quella che sarà chiamata ‘legislazione sociale’ e, non a caso, poneva una limitazione alla durata della giornata lavorativa dei bambini.
La prima osservazione preliminare è, dunque, che la regolazione del tempo di lavoro giornaliero costituisce l’originario nucleo regolativo del lavoro salariato. Non è un caso che Marx, nel Libro I del Capitale, dedica non solo pagine di rilievo alla durata della giornata lavorativa ma, addirittura, costruisce la sua teoria del valore anche sul fattore del tempo di lavoro. Al di là delle confutazioni di tale teoria, ritengo condivisibile l’affermazione marxiana secondo la quale «la variazione della giornata lavorativa si muove dunque entro limiti fisici e sociali». A ben vedere, infatti, la determinazione della durata della prestazione di lavoro non è, poi, solo questione di capacità fisica di ciascun lavoratore ma anche di considerazione sociale dei limiti temporali della prestazione. In fin dei conti, la legge ‘infame’ è una legge determinata dalla istanza sociale di limitazione del tempo di lavoro minorile.
Tuttavia, a voler guardare all’intera parabola della regolazione sociale del tempo di lavoro, emerge, senza dubbio, che la prima istanza è costituita dalla tutela della salute. La «limitazione dell’orario di lavoro per gli operai ed impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura» apposta col r.d.l. n. 692/23 è funzionale alla tutela della salute, così come l’art. 36, comma 2, Cost. in base al quale «la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». Questo è un punto essenziale nella più avvertita dottrina (Leccese, L’orario di lavoro, Cacucci, Bari, 2001). E a conferma di ciò si adduce la legislazione comunitaria sull’orario di lavoro allorché la Direttiva 93/104 dedica espressamente alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori ben 7 ‘considerando’ su 18.
Eppure, sarebbe ingenuo pensare che la regolazione giuridica dell’orario di lavoro sia funzionale soltanto alla tutela della salute e non anche (perlomeno) alla funzione organizzativa della produzione, anch’essa di origine sociale. D’altronde, quando nella manualistica universitaria di economia politica si legge che «la scelta [razionale] cruciale diventa… quella fra consumo e tempo libero» in quanto «il consumo dipende dal reddito, il quale dipende, a sua volta, dal tempo di lavoro» (v. per esempio il manuale di Ecchia e Gozzi, Mercati, strategie e istituzioni. Elementi di microeconomia, il Mulino, Bologna, 2002, pp. 431 – 432) appare evidente che anche l’organizzazione del tempo di lavoro è il prodotto di un determinato assetto sociale.
2. Questa lunga premessa mi consente di confermare che la regolazione giuridica del tempo di lavoro è il prodotto della combinazione di diversi fattori sociali (tutela della salute, organizzazione della produzione, disponibilità di tempo libero, ecc.) e che questa combinazione rispecchia l’assetto di interessi che quella legge è destinata a soddisfare.
Da questo punto di vista, occorre guardare alla disciplina giuridica del tempo di lavoro non solo come legge di regolazione della prestazione di lavoro a tempo pieno e indeterminato (quella del decreto legislativo n. 66 del 2003) ma anche la disciplina del tempo della prestazione di lavoro, anche quando questa è ad orario ridotto, modulato o flessibile, così come s’intitola il Titolo V del decreto legislativo n. 276 del 2003. Per poter formulare un giudizio sull’assetto d’interessi rappresentato dal nostro ordinamento giuridico occorre, dunque, guardare alla generalità del tempo della prestazione di lavoro.
A tal fine propongo in ipotesi, come paradigma interpretativo, la ‘prestazione di lavoro a tempo flessibile’; essa è dedotta sia in un contratto a tempo pieno sia in un contratto a tempo parziale ovvero in un contratto di lavoro intermittente.
3. In estrema sintesi si possono delineare le seguenti caratteristiche.
La prestazione di lavoro oggi può avere una durata massima settimanale pari a 48 ore da calcolare come media settimanale in un periodo di almeno quattro mesi (eventualmente allungabile fino ad un anno da parte della contrattazione collettiva). Se raffrontiamo questa disposizione con quella della legislazione previgente che era fissata in 52 ore (o, secondo una dottrina, in 60 ore) si dovrebbe dire che la nuova disciplina migliora la condizione di lavoro avendo abbassato l’orario complessivo. Eppure così non è: le 48 ore settimanali sono calcolate come media e ciò comporta la possibilità concreta di poter superare questo limite qualora, in un periodo successivo, si effettuino settimane lavorative con un orario inferiore al medesimo limite, onde rispettare la media di 48.
Ma fino a che durata effettiva può protendersi la prestazione di lavoro? La Direttiva comunitaria – archetipo della disciplina – non dice nulla. Questa omissione mostra, quantomeno, la discutibilità della retorica sulla finalità di tutela della salute della disciplina comunitaria. Paradossalmente, invece, dalla legge nazionale sull’organizzazione dell’orario è possibile desumere tale limite, che coincide con circa 13 ore giornaliere. Se confrontiamo questo tetto massimo con quello previgente – che corrispondeva al massimo a 10 ore – appare evidente il peggioramento della nuova condizione normativa. Orbene, allo stesso modo, se moltiplichiamo questo tetto giornaliero per i 6 giorni di lavoro settimanale si ottiene un orario massimo assoluto pari a circa 78 ore la settimana effettive, insomma, ben altra cosa rispetto alla 48 ore enunciate.
Per altro verso, a fronte di tali limiti di durata alla prestazione di lavoro, occorre osservare che oggi non esiste più un orario normale giornaliero. Poiché la ‘normalità’ costituisce un criterio oggettivo che indica il voluto dalle parti, cioè il tempo di lavoro che le parti co-determinano nel contratto e che segna il confine fra tempo di lavoro e tempo libero, un lavoratore potrebbe essere impiegato un giorno per 5 ore ed il successivo per 13 senza alcun vincolo normativo derivante dalla legge. Insomma, i soli limiti legali assoluti sono quelli massimi entro i quali l’impresa può utilizzare i lavoratori.
Beninteso, esiste un orario normale settimanale che determina l’orario cui un lavoratore è obbligato, ma ciò è ininfluente sull’orario giornaliero e comunque, anch’esso è un limite parametrale, poiché le 40 ore settimanali possono essere calcolate come media nell’arco di un periodo non superiore ad un anno. Si comprende bene come, in questo caso, l’orario normale è niente altro che un parametro per calcolare il monte-ore complessivo (quadrimestrale, semestrale o annuo). Insomma, la determinazione dell’orario di lavoro si risolve nella determinazione di un monte-ore tendenzialmente calcolato su un periodo sempre più lungo (preferibilmente, un anno), salvo lasciare la possibilità alla volontà unilaterale dell’impresa, in base alle esigenze organizzative, di determinare la durata e la collocazione temporale effettiva. Per intenderci, l’annualizzazione dell’orario di lavoro non è altro che un monte-ore che, a prescindere dall’orario medio settimanale (sia normale, sia massimo) costituisce una riserva di tempo di lavoro da cui attingere mano a amano che se ne ha la necessità, fino al suo esaurimento, per poter poi ricorrere al lavoro straordinario. L’unico limite certo ed assoluto è dato dalle coordinate del tetto (autentico) giornaliero e settimanale.
4. Tale assetto giuridico rappresenta l’indeterminatezza delle coordinate temporali della prestazione di lavoro, le sole in grado di determinare il tempo di lavoro e, per converso, il tempo di non lavoro. Così si può apprezzare l’equivalenza col contratto part-time corredato da una clausola elastica o flessibile ovvero quando sia richiesto lavoro supplementare. Nel contratto part-time è indicato un orario contrattuale (il dovuto) che, ormai, rappresenta un mero riferimento indicativo (ancorché formalizzato), dal momento che esso può variare nella collocazione temporale grazie alla clausola flessibile, lasciando inalterato il quantum, oppure può anche variare la durata proprio grazie al lavoro supplementare ovvero alla clausola elastica. Non c’è alcuna determinazione effettiva nella dimensione temporale della prestazione di lavoro a tempo ridotto se non la durata minima contrattuale, ormai divenuta strutturalmente variabile sia nella collocazione, sia nella durata.
L’apoteosi di tale tendenza è la prestazione di lavoro intermittente. Al di là di ogni eccezione di costituzionalità, pur così palesi, la prestazione di lavoro intermittente è l’esempio sublime di un contratto senza oggetto temporale. È come se fosse stipulato un contratto di lavoro a zero ore e fosse consentito richiedere lavoro supplementare nei soli limiti assoluti previsti dalla legge sull’orario di lavoro: cioè 13 ore al giorno e 77 alla settimana.
5. Dinanzi a tale quadro giuridico appare incomprensibile discutere di sostenibilità della flessibilità o personalizzazione degli orari, come invece si sostiene da più parti (e da ultimo Baretta, L’orario di lavoro nell’era della flessibilità, in questa rivista). L’analisi delle norme giuridiche non consente alcun giudizio del genere, al più un mero auspicio. Appare, peraltro, ancor meno comprensibile la supposta rilevanza attribuita alla contrattazione collettiva, soprattutto perché essa ha, volente o nolente, una funzione decisiva nel riequilibrio degli assetti d’interesse declinato dalla legge sul tempo di lavoro. A sostegno di ciò, suggerisco la lettura di un saggio sull’autentico ruolo attribuito alla contrattazione collettiva nella disciplina dell’orario di lavoro nel decreto 66/2003 (Carabelli, Leccese, Una riflessione sul sofferto rapporto tra legge e autonomia collettiva: spunti dalla nuova disciplina dell’orario di lavoro, di prossima pubblicazione in ‘Scritti in onore di Giorgio Ghezzi’). Qui mi limito solo a sottolineare che, sovente, il richiamo alla contrattazione collettiva è finalizzato al miglioramento delle disposizioni legali. La contrattazione collettiva non ha più il compito di governare il mercato del lavoro immettendo dosi di flessibilità nel sistema giuridico-organizzativo ma ad essa spetta il ben più arduo compito di tentare (se ne avrà la forza negoziale) di immettere dosi di controllo e rigidità di una flessibilità assai ampia e sbilanciata derivante dalle norme giuridiche.
A ben vedere, la contrattazione collettiva è condannata a ritornare alle origini. Ad essa tocca ricostruire (per quanto innovata) una rete di diritti e tutele per i lavoratori, tale da migliorare le condizioni normative stabilite dalla legge. Spetta al sindacato, per esempio, ottenere una durata massima assoluta della settimana lavorativa che sia inferiore alla 77 ore legali; e così via. Questo è il ruolo affidatole dalla legge. Il fatto che, per esempio, in alcuni settori la contrattazione collettiva contemperi esigenze di produttività con istanze di autogoverno individuale del tempo di lavoro (penso alla banca delle ore) dimostra proprio che, ove anche si riesce a strappare qualche risultato di flessibilità dell’orario gestita dal lavoratore, la fruibilità risulta ancora largamente condizionata dalle esigenze produttive e, comunque, lascia impregiudicata l’analisi sulla normativa italiana. Non è questa la sede per approfondire il tecnicismo, ma dalla semplice disposizione sul computo delle ore di lavoro prevista nel decreto n. 66/03 emerge chiaramente un quadro tutt’altro che garante del tempo di non-lavoro che l’ordinamento giuridico garantisce.
Orbene, le relazioni industriali sembrano ritornare al vecchio schema, secondo il quale il sindacato contratta le condizioni di miglior favore per i lavoratori. Non è detto, poi, che sia un male. Verrebbe da dire, a ciascuno il suo. Si potrebbe anche discutere se tale riposizionamento dell’autonomia collettiva sia dettato da una volontà del sindacato stesso (si pensi all’Avviso comune del 1997 in materia di orario di lavoro) o da una volontà politica altrui. Ma tant’è. Occorre, dunque, avere la consapevolezza che le questioni in campo sono diverse e che non ci si può limitare al dilemma ‘lavorare di più-lavorare di meno’. La Direttiva comunitaria, per esempio, dimostra che si può anche lavorare di meno, complessivamente, senza perciò migliorare la condizione di lavoro: qual è il miglioramento riscontrabile nella possibilità di lavorare per due mesi consecutivi a 65 – 70 ore la settimana?
Vero è che l’incremento del lavoro si può presentare come allungamento degli orari, intensificazione dei ritmi, disponibilità alla variazione dei tempi. Occorre distinguere i problemi ma anche sapere che nulla sarà mai paragonabile allo statuto giuridico del tempo di lavoro tailandese! Ma questo argomento preferisco collocarlo in un altro contesto, di uguale o maggiore importanza, comune alle condizioni di sviluppo delle economie dei Paesi europei, ma comunque estraneo ad un giudizio sulla politica legislativa o sulla politica del diritto.
Rimane, infatti, che la vicenda giuridica del tempo di lavoro è forse la più emblematica di una nuova stagione del diritto del lavoro e delle relazioni industriali. Occorre rimettere al centro della riflessione non solo (o non tanto) la questione della riduzione del tempo di lavoro o la sua redistribuzione, ma anche (e soprattutto) la questione di una sua ‘democratizzazione’. Non solo determinare la sua estensione o la sua distribuzione, non solo la sua intensità, ma la sua funzione di valorizzazione dell’organizzazione produttiva. Insomma, è questione di controllo del tempo di lavoro, di controllo del processo produttivo