di Gian Primo Cella – Ordinario di Sociologia Economica all’Università di Milano
Dopo l’appello alla ripresa del “cammino dell’unità sindacale” sottoscritto da un gruppo di intellettuali e di qualificati testimoni dell’esperienza sindacale, qualcosa si è mosso. Non tanto per merito diretto dell’appello, quanto per la percezione diffusa in molti settori del sindacalismo confederale italiano di avere quasi sfiorato il punto di non ritorno, una percezione che l’appello ha solo avuto il merito di segnalare, e di rafforzare. Nell’ultimo mese sono state numerose le iniziative unitarie, da quelle spinte soprattutto da ragioni civili e umanitarie (l’opposizione alla guerra) a quelle rivolte alla difesa di interessi tradizionali ben rappresentati dalle confederazioni (si veda la minaccia di reazioni anche dure nei confronti delle posizioni del Governo in tema di pensioni). E tali iniziative sono state accompagnate spesso da dichiarazioni delle dirigenze confederali che ne ribadivano il carattere unitario: una legittimazione non così scontata, visto che ad essa non eravamo più abituati da anni. Anche un effetto non voluto dell’appello ha avuto un certo ruolo: il suo rivolgersi in particolare ai sindacati milanesi per le capacità di recupero unitario che avevano mostrato dopo la rottura traumatica in occasione del Patto di Milano, ha destato quasi una competizione con le dirigenze nazionali, che hanno reagito sottolineando la loro capacità di muoversi senza aspettare Milano.
Anche questa una piccola cosa, ma può costituire un inizio significativo. L’intervista di Epifani alla Repubblica (8 aprile 2003) si è iscritta pienamente in questa ripresa, sia nelle dichiarazioni (il riconoscimento di una sostanziale unità con le altre confederazioni “in otto materie su dieci”), sia nel tono, che non si ascoltava ormai da tempo nella Cgil, dopo un periodo di aspra intransigenza più consona alle esperienze di sindacalismo minoritario e politicizzato che alla natura, ed anche alla cultura, di uno dei più forti sindacati confederali nel panorama internazionale.
In questo quadro che, con cautela, gli osservatori sensibili al tema dell’unità potrebbero giudicare positivo, specie se si accantona il dissenso più grande di tutti (ovvero quello legato al rinnovo contrattuale dei metalmeccanici), si notano sfumature di un qualche rilievo nelle reazioni dei diversi ambienti confederali. Più espliciti, ad esempio, nel raccogliere l’appello si sono mostrati alcuni settori della Cgil (la confederazione forse più strattonata nello scorso anno verso un terreno improprio), più cauti invece luoghi e gruppi della Cisl (la confederazione più scottata, provata dalla asprezza delle polemiche). Da questa confederazione è giunta una critica su una certa reticenza dell’appello nel riconoscere le responsabilità degli strappi e delle deviazioni più rilevanti non solo dai principi dell’autonomia ma anche dalle buone prassi negoziali di un tipico grande sindacato europeo.
Critiche simili erano anche giunte nei confronti di un mio precedente scritto dedicato all’unità sindacale “possibile” su Aggiornamenti sociali (febbraio 2003), stimolato da interventi dei tre segretari generali apparsi sulla stessa rivista nello scorso autunno. A queste critiche si può rispondere che quando, come in questi casi, si adotta anche uno scoperto intento “pedagogico” (il far vedere e il dimostrare i sicuri danni per tutti di una competizione rissosa e esasperata), l’adozione dell’atteggiamento giovanneo del “tacere dei peccatori per parlare dei peccati” è forse più foriero di effetti positivi che il più scontato elenco di colpe e responsabilità. Non solo, si potrebbe ricordare che, in competizioni di questo tipo (come quella fra Cgil e Cisl), ci sono sempre due modi per reagire agli strappi, alle forzature, alle deviazioni. Il primo è quello di tipo “rafforzativo”, ovvero quello che riafferma le identità, le convinzioni, le credenze delle parti. Il secondo è quello di tipo “riparativo”, ovvero quello che persegue attraverso aggiustamenti e compromessi la ricomposizione del dissenso, anche con significative rinunce alle proprie posizioni. Passate le effervescenze del brevissimo periodo, non è detto che sia il primo modo quello destinato al successo.
Qualcuno ha osservato, come Treu con efficacia proprio sul Diario del Lavoro una decina di giorni addietro, che l’auspicabile cammino verso l’unità d’azione è reso incerto da una mancata chiarezza e convergenza di fondo sui rapporti fra sindacato e politica nella nuova fase di bipolarismo. La forzatura verso un bipolarismo sindacale, esplicitamente non voluto da nessuno ma che potrebbe derivare nei fatti da scelte improvvide e atteggiamenti sindacalmente poco responsabili, sarebbe una iattura con conseguenze sgradevoli per tutti.
Il grande sindacalismo confederale deve abituarsi ad agire e a comportarsi “prima e dopo della politica”, con la forza e la autorevolezza che gli deriva dalla rappresentanza degli interessi del lavoro, un lavoro con il quale si vive ma per il quale spesso si muore (come dice la tragica catena di infortuni che trasforma in un lutto continuo la nostra storia civile). Una rappresentanza ben più solida e meno volubile di quelle di tipo partitico e che, per natura, non può attribuirsi la scelta delle compagini governative con cui negoziare. Da questo punto di vista, tutti i temi oggetto della attenzione del sindacalismo confederale vanno riportati rigorosamente sul piano sindacale e condotti con coerente logica negoziale. L’opposizione sindacale ai Governi, se ha un senso, solo da questo versante potrà trovare consenso e legittimazione.
Purtroppo, anche sul piano sindacale i contrasti non mancano: lo sta ad indicare la vicenda dei metalmeccanici, ovvero il paradosso della categoria che per decenni aveva rappresentato la punta avanzata delle esperienze unitarie e che ora si ritrova a giocare il ruolo della componente riottosa e litigiosa, insopportabile da molte altre categorie che, smussando le punte e inghiottendo qualche boccone non gradito, hanno condotto in porto dignitosi rinnovi contrattuali unitari (come il recente e da lungo atteso contratto dei ferrovieri e quello dei poligrafici dei quotidiani).
Resterebbe un buon argomento della ricerca sociologica la scoperta delle ragioni capaci di spiegare le origini e la giustificazione dell’operaismo (non possiedo altro termine) retro della Fiom. Una buona domanda conseguente potrebbe essere: cosa avranno in particolare i lavoratori del settore iscritti alla Fiom per meritarsi l’arcaicità della piattaforma presentata dal loro sindacato?
Preso atto di questa situazione, resta comunque il problema (risollevato di recente da Donata Gottardi sul Diario del Lavoro) della validazione-approvazione dei contratti in un contesto di divisione sindacale, ovvero senza quella unità d’azione che aveva costituito la reale alternativa funzionale alla mancata applicazione del quarto comma dell’art. 39 della costituzione. Problema che assume particolare gravità in quei settori, specie del terziario, dove si diffondono contratti stipulati da sindacati di incerta o inesistente rappresentatività (problema già esplicitato nel testo dell’accordo tripartito del luglio 1993). In assenza di una legge sulla rappresentatività, per la quale comunque sarebbe arduo trovare una intesa fra i sindacati anche in presenza di una maggioranza di Governo più affidabile di questa, un patto di autoregolazione sperimentale fra le confederazioni potrebbe essere un antidoto per evitare il profilarsi di uno scenario di declino, favorito dalla nuove possibili attribuzioni istituzionali alle regioni in questioni di lavoro. Quello che si potrebbe definire uno “scenario alla francese”, di sicuro declino per tutti.
Un accomodamento della vicenda dei metalmeccanici resta una esigenza primaria per la ripresa del cammino dell’unità. Non penso sia proponibile a questo punto, e con tali divisioni, il ricorso (come avanzato dalla Fiom) a un referendum di approvazione del rinnovo contrattuale, in assenza di regole definite ex ante. Ma non penso che la faccenda possa essere lasciata a sé stessa: i benefici che deriverebbero ai lavoratori del settore dalla stipula del contratto, sia pure “separato”, potrebbero non valere gli effetti probabili di destrutturazione sull’intero sistema italiano della contrattazione collettiva. Forse sarebbe opportuno un intervento, inconsueto e irrituale, di regolazione (una sorta di mediazione interna) da parte delle confederazioni, concordato con i sindacati di categoria. Potremmo allora verificare quale consistenza mostrano i segnali di ripresa del cammino unitario.