Dopo la recente pubblicazione dei dati Istat sulla perdita di più di 900.000 posti lavoro durante la pandemia e in prossimità dell’inevitabile, per quanto procrastinato, sblocco dei licenziamenti, si è tornato a parlare con insistenza delle politiche attive del lavoro.
Per la verità la discussione sul tema è ciclica, come ciclici sono i dati sull’occupazione, ma ciclica non vuol dire “sistemica”. Non dico che non ci siano molti interventi che focalizzano aspetti più che corretti e interessanti, ma il rischio di un approccio emergenziale e parziale, a mio parere, è quello più ricorrente. Non a caso anche semanticamente si parla di “politiche attive del lavoro” ossia una pluralità di interventi, come corretto che sia. Ma questi diversi interventi non dovrebbero essere collocati in un coerente quadro d’insieme in “una” politica attiva del lavoro?
Provo a spiegarmi meglio: che si intende per politiche attive del lavoro? Si intende un insieme di strumenti funzionali all’ottimale allocazione delle offerte di lavoro sul mercato della domanda di lavoro. Ossia, tutti quegli interventi che possono rendere efficiente quel mercato e frizionale la disoccupazione. Almeno questo insegnano i manuali di macroeconomia.
Tralascio, ovviamente le considerazioni etiche sulla natura del lavoro come “altro” dalle altre merci scambiate sui mercati, mi pare evidente che non si tratti della stessa fattispecie. Come qualcuno ricordava “il lavoro è dignità” e io aggiungo con molta modestia… la disoccupazione no!
Ciò premesso quello che vorrei chiarire è che, come in ogni mercato, anche quello del lavoro, funziona meglio se si trova in una fase espansiva. Qualcuno dirà “la scoperta dell’acqua calda!”. Ma non è proprio così. Ciascun mercato del lavoro ha le sue caratteristiche: quello americano e inglese, più di altri, hanno una forte correlazione con la dinamica del ciclo economico (data la loro intrinseca flessibilità), quindi di fronte ad una ripresa reagiscono incrementando i livelli occupazionali e viceversa. Questo avviene con tempi di reazione piuttosto veloci. Quello italiano, ma non solo, ha, invece, una sua intrinseca vischiosità (la ragione della quale non voglio qui indagare…anche per carità di Patria!) di conseguenza rischia di avere una minor correlazione con la dinamica del ciclo economico. Questa non è stabilità occupazionale, sia chiaro! È solo accumulo di inefficienza frizionale. Prima o poi questa ingessatura del sistema determina una minor dinamicità dello stesso ciclo di sviluppo economico, per il semplice motivo che non assicura la fornitura, soprattutto qualitativa, della forza lavoro necessaria a cogliere le nuove opportunità di crescita.
Chiedo subito perdono per le madornali semplificazioni, ma questo non voleva essere un trattato scientifico (Posso però, a qualche curioso, fornire le fonti, tutte interne a un modello Keynesiano).
Questo cosa vuol dire? Vuol dire, per esempio, che sulla base della “legge di Okun” negli Stati Uniti, a fronte di una crescita del 2% del PIL potenziale, si ha tendenzialmente una diminuzione dell’uno per cento del tasso di disoccupazione, mentre, in Italia, la stessa crescita del PIL non assicura un’analoga diminuzione della disoccupazione involontaria.
Ciò detto, nessuno può negare che decenni di “decrescita” o mancata crescita (più o meno felice) hanno determinato in Italia il tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa (con vette drammatiche riferite al tasso di occupazione femminile e giovanile).
Quindi: niente sviluppo, niente crescita dell’occupazione e, di conseguenza, scarsissima efficacia di qualsiasi politica attiva del lavoro, anche di quelle maggiormente sussidiate dall’incentivo pubblico.
Del resto, secondo gli ultimi dati, l’Italia destina alle politiche attive del lavoro lo 0.51% del PIL contro lo 0.53% della media dei paesi OCSE, meno dello 0,68% della media dei Paesi UE.
La maggior parte di queste risorse sono destinate ad incentivi all’occupazione ma non a programmi di orientamento specifico all’avvio a nuova occupazione. Insomma, non spendiamo poco, ma lo facciamo male. E soprattutto continuiamo a farlo in un contesto di asfittica crescita complessiva.
Nel prossimo triennio invece è prevista una crescita robusta, nel DPEF del Governo di più del 4% per il 2021 e 2022 e più del 2% per il 2023. Il vero rischio però sarà che quello sviluppo rischierà di non produrre un maggior incremento occupazionale, non solo per l’inevitabile e anche auspicabile incremento della produttività ma soprattutto per il mancato allineamento tra offerta e domanda di lavoro.
Secondo le ultime rilevazioni Excelsior, di Unioncamere e Anpal, le difficoltà di reperimento delle professionalità necessarie si concentreranno soprattutto sui laureati nelle discipline STEM (science, technology, engineering, and mathematics). Abbiamo in Italia solo il 24,6% di laureati in discipline STEM (con un forte divario tra uomini 37,3% e donne 16, 2%) contro il 32,2% della Germania, il 26, 8% della Francia e il 27, 5% della Spagna. Anche su questo siamo sotto la media UE.
Il rischio tutt’altro che remoto è che la ripresa economica non potrà agganciare le competenze necessarie mentre la crisi pandemica avrà già distrutto una parte di professionalità non più necessarie.
Una politica attiva del lavoro richiede appunto questa visione sistemica, questa consapevolezza.
Per esempio, richiede che si avviino da subito percorsi di riqualificazione professionale orientati verso quelle discipline, questo anche attraverso specifici accordi territoriali tra soggetti pubblici, aziende e sindacati.
Si tratta da subito di rilanciare (siamo già in ritardo) corsi di aggiornamento professionale anche collegando la loro frequenza alla erogazione di specifiche forme di sostegno al reddito, si badi bene non solo per chi ha perso il lavoro ma per chi vuole cambiare il lavoro! Solo attraverso un incremento della velocità di circolazione dell’offerta si potrà ottenere una più efficace distribuzione della stessa.
Non servono faraonici progetti (tanto meno quelli gestiti dalle Regioni) servono iniziative mirate sul territorio meglio se a forma mista pubblico e privato.
Ci sono già buone pratiche avviate tra associazione datoriali e associazioni sindacali, basta copiare e incentivare quel modello (meglio ancora se questi percorsi di aggiornamento professionale vengono svolti internamente alle aziende, basterebbe incrementare di qualche unità i vari corsi gia svolti e finanziati dai fondi contrattuali es. Fondimpresa).
Inoltre una raccolta dati coerente sulle caratteristiche professionali dei disoccupati involontari da più di tre mesi (una block-chain) che ne garantisca la tracciabilità potrebbe essere il primo gradino dal quale partire per la riforma degli Uffici per l’impiego (si tratta in fondo di intrecciare i dati con l’Inps che eroga appunto il sostegno al reddito.
È vero che la maggior parte degli addetti ai centri per l’impiego ha più di 50 anni e scarse competenze specifiche ma, a parte un doveroso programma di aggiornamento professionale, perché non destinare a queste strutture una quota (con specifiche competenze) delle 200.000 nuove assunzioni previste nel pubblico impiego dal Ministro Brunetta?
Infine, a differenza di altri Paesi Europei, l’Italia destina solo il 2% del proprio budget delle politiche attive ai servizi di orientamento alla ricerca di nuova occupazione. Cercare il lavoro è un lavoro! Bisogna insegnarlo e avere le competenze per farlo altro che APP!
Una maggiore sinergia tra pubblico e privato, anche attraverso specifiche forme di collaborazione, potrebbe non solo trasferire le competenze necessarie ma anche sperimentare nuove forme di avvio a nuova occupazione.
Bisogna però chiarire da subito che tutto questo rischia di essere inefficace se prevale una demonizzazione di ogni forma di lavoro flessibile (meno decreto dignità e più dignità) pochi si sono accorti che correttamente si è spostato verso la contrattazione collettiva l’onere di indicare le causale da introdurre per i contratti a termine. Speriamo che la magistratura non faccia tabula rasa anche di questo orientamento “pragmatico” in nome di astratti principi da difendere.
Insomma: maggiore sviluppo economico, maggiore formazione mirata, e maggiore flessibilità contrattata potranno rendere il mercato del lavoro italiano più dinamico ed efficiente.
So bene che siamo già in ritardo ma come dice un proverbio cinese “il primo momento migliore per piantare un albero è venti anni fa, il secondo: adesso!”.
Luigi Marelli