Miracolo! Ma quanto dura? Il miracolo in questione è l’inattesa luna di miele fra i titoli del debito pubblico italiano e i mercati finanziari che, in barba alle vaste schiere di pessimisti, sta facendo recedere sempre più lontano lo spettro che, da sempre o quasi, accompagna tutti i governi italiani: lo spread. E’ la differenza fra il rendimento che offre il Bund, il titolo tedesco a 10 anni, e quello che deve garantire, per trovare compratori, il suo omologo italiano, il Btp. Questa differenza viene considerata, un po’ da tutti, il termometro della credibilità e della affidabilità della finanza pubblica italiana, che ogni anno, per colmare i suoi deficit, deve trovare sul mercato chi è disposto a prestarle un 360 miliardi di euro, invece di darli al solido tedesco. Nel momento più nero – governo Berlusconi, anno 2010 – lo spread arrivò alla vertiginosa quota 500 (ovvero, il Btp doveva offrire 5 per cento in più, rispetto al Bund).
Evitata la catastrofe, grazie al “whatever it takes” di Draghi, lo spread è ridisceso, continuando, però, a ballare intorno alla zona che la Banca d’Italia ritiene pericolosa, cioè oltre quota 200. La stretta del Covid ha inizialmente inasprito i timori, Mario Draghi, questa volta a Palazzo Chigi, li ha poi dissolti: spread a 90. E’ durato, tuttavia, poco: con la caduta di Draghi, lo spread ha ripreso a salire verso la zona pericolo.
I pessimisti avevano solide ragioni per temere che, a questo punto, la situazione sfuggisse di mano al nuovo governo. L’economia italiana, dopo il rimbalzo post Covid, si è praticamente arenata, facendo saltare tutte le rosee previsioni del governo sugli spazi della finanza pubblica. Disavanzo in aumento, debito inchiodato al 140 per cento del Pil, tassi (e, dunque, costo del debito) in salita, la Bce che, in più, fa mancare i suoi acquisti a stabilizzare il mercato, il superbonus che dinamita i conti, i rapporti con Bruxelles – visto il rifiuto italiano del Mes – quanto meno faticosi. Tutti ingredienti di una ricetta di crisi.
E, dunque? E dunque, a sorpresa, ecco lo spread italiano veleggiare, invece, gloriosamente a quota 120, che solo Draghi ha saputo far meglio. Che succede? Le preoccupazioni dei pessimisti, cariche di pregiudizi verso i sovranisti, erano infondate? Niente affatto. Tutto vero. Ma il contesto è cambiato abbastanza da tacitarle, almeno per ora. Vediamo, punto per punto, dove e come è cambiato il quadro.
1) Il governo Meloni si è trovato in eredità un nuovo strumento di difesa europeo. Nel luglio 2022, al tramonto del governo Draghi, i falchi della Bce ottennero il via libera alla brutale stretta dei tassi contro l’inflazione, in cambio della creazione di un nuovo meccanismo (Tpi, Transmission Protection Mechanism) che consentiva a Francoforte di intervenire a salvare governi in difficoltà sui mercati. C’erano già le Omt – le operazioni di mercato – volute da Draghi nel suo periodo alla Bce, ma quelle operazioni richiedevano un preventivo intervento degli altri governi attraverso il Mes. Il Tpi, invece, scatta a giudizio discrezionale della stessa Bce, una indicazione vaga che – anche se i nemici del nuovo Mes non se ne accorgono – offre opportunità più favorevoli.
2) Sotto questo ombrello, il governo di destra sta facendo quello che fanno i governi di destra: taglia le tasse (in Italia questo taglio assume tradizionalmente la veste di condoni e facilitazioni agli evasori) e taglia garanzie e sussidi del welfare. Ma ai mercati poco importa se la destra fa la destra: ciò che conta è che, pur scavalcando i paletti comunitari, la gestione Giorgetti non sta sfondando i conti, fino ad allarmare, grazie anche alla pausa preelettorale, i censori di Bruxelles.
Ci sono anche motivi specificamente tecnici.
3) Adesso che la Bce ha rovesciato la sua politica e, invece di comprare i Bund, li vende, gli stessi Bund – così appetiti dagli investitori – non sono più tanto scarsi e, dunque, il prezzo scende.
Contemporaneamente, i Btp italiani, nel momento in cui gli operatori si aspettano che la Bce cominci a ridurre i tassi, offrono rendimenti vantaggiosi.
Ma c’è anche il soccorso – del tutto involontario – proprio della Germania, privata del ruolo di cocca del mercato.
4) La crescita italiana è ormai asfittica: più 1 per cento nel 2023. Ma la Germania sta peggio: meno 0,3 per cento. Quest’anno, la Germania si riprenderà con un più 0,4 per cento. Ma per l’Italia si prevede un più 0,6 per cento. Il risultato è che il deficit italiano è più alto, ma dovrebbe scendere più in fretta di quello tedesco. E noi abbiamo il volano dei quasi 200 miliardi di euro del Pnrr europeo, mentre i tedeschi sono strozzati dal blocco al proprio debito pubblico, che si sono imposti da soli.
Tutto questo, tuttavia, non basta a spiegare perché siamo riusciti ad assorbire, senza innescare lo spread, la inversione a U della Bce, passata dal comprare 40 miliardi di euro di Btp (2022) a venderne per 30 miliardi (2023). Paradossalmente, ci ha aiutato proprio l’aumento dei tassi di interesse.
5) A chiudere il buco, infatti, sono accorse le famiglie italiane (statisticamente, questo comparto comprende anche le piccole imprese) ingolosite, dopo anni di magra, da rendimenti super (4 per cento) dei Btp. Ed ecco che queste famiglie, che, nel 2022, avevano comprato titoli di Stato per non più di 50 miliardi di euro, ne hanno rastrellato oltre 120 miliardi nel 2023. E lo stesso vale per i sofisticati operatori esteri: avevano venduto 65 miliardi di euro di Btp nel 2022, ne hanno comprato oltre 40 miliardi nel 2023.
Il punto è: siamo di fronte ad una svolta o ad una bonaccia temporanea? I pessimisti sono stati smentiti, ma essere ottimisti è difficile. La situazione economica italiana resta precaria: la crescita è sempre minima, il disavanzo troppo alto, il debito inscalfibile. Il confronto con la Germania può migliorare la percezione, ma le percezioni sono labili e uno stormir di fronde può cancellarle. E i tempi della politica economica vanno in senso opposto a quanto ci servirebbe. Perché le manovre sui tassi esplichino fino in fondo tutta la loro influenza sull’economia occorrono circa 18 mesi, dicono i tecnici. Quindi, visto che la corsa si è appena fermata, fino a metà 2025. Secondo la Banca d’Italia, infatti, la stretta al credito è circa a due terzi del suo cammino. Per lo stesso motivo, il taglio dei tassi in vista a giugno avrà l’effetto di rilancio dell’economia solo più avanti (diciamo a fine 2025). In altre parole, 2024 e 2025 saranno ancora anni di recessione.
Ma gli effetti sulla finanza sono, intanto, molto più immediati. Gli operatori professionali possono ancora apprezzare un vantaggio di rendimento fra Bund e Btp. Ma per le famiglie, tassi di interesse dei Btp non più al 4, ma al 2 per cento spengono gli appetiti (e le percezioni). E ripropongono il problema: se, dopo la Bce, disertano anche le famiglie, chi compra 360 miliardi di euro di titoli del Tesoro?
Maurizio Ricci