Una lavoratrice, con mansioni di operaia con inquadramento nel livello A del contratto collettivo del settore chimico piccola industria con la sede di lavoro a Firenze, ha ricevuto dalla datrice di lavoro la comunicazione del suo trasferimento alla sede di Massa per essersi determinata nell’organico di quella sede una vacanza di posto, a fronte dell’esigenza aziendale di ridurre il personale a Firenze.
La lavoratrice interessata, assumendo che le fosse impossibile sia trasferirsi nella nuova sede di lavoro per ragioni economiche e familiari sia recarsi giornalmente a Massa (per la lontananza da Firenze, per il tempo che avrebbe impiegato negli spostamenti da casa al lavoro e per il costo giornaliero dei mezzi pubblici, che avrebbe dovuto necessariamente utilizzare non avendo la patente), aveva dato le dimissioni, per giusta causa, senza impugnare il trasferimento. Dopo queste dimissioni, ha chiesto all’Inps il pagamento dell’indennità di disoccupazione Naspi avendone, secondo la sua prospettazione, i necessari requisiti assicurativi e contributivi, ma l’istituto ha respinto la domanda, ritenendo ostativo il fatto che la lavoratrice non avesse contestato il trasferimento, né avesse documentato la sua volontà di farlo.
La lavoratrice, assumendo l’illegittimità del diniego dell’istituto previdenziale, ha chiesto al tribunale di Firenze il riconoscimento della Naspi, sostenendo che la sua posizione giuridica era da equipararsi a quella di chi avesse risolto consensualmente il rapporto di lavoro in esito a un trasferimento ad altra sede dell’azienda distante più di 50 km dalla sua residenza e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici, un’ipotesi per la quale l’INPS, con diverse sue circolari, aveva invece riconosciuto il diritto alla Naspi. Questo diritto le era dovuto in quanto le sue dimissioni non erano comunque riconducibili ad una sua libera scelta “in quanto indotte da comportamenti altrui idonei ad integrare la condizione della improseguibilità del rapporto”. Il tribunale di Firenze ha respinto il ricorso, ritenendo l’inesistenza della dedotta giusta causa, in quanto la lavoratrice non aveva negato l’esistenza delle esigenze tecnico produttive poste a base del trasferimento, la cui legittimità infatti non aveva contestato. Così che la risoluzione del rapporto non sarebbe stata conseguenza di un comportamento illegittimo del datore di lavoro, ma frutto unicamente di una libera scelta della lavoratrice.
La Corte di Appello di Firenze, stigmatizzando l’originale ragionamento del tribunale locale, ha riformato integralmente la decisione riconoscendo il diritto della lavoratrice a godere della Naspi così motivando la sua decisione: “Rileva la Corte come l’art. 3 del D.L.gs. 22/2015, garantisca la prestazione di cui è causa ai lavoratori “che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione”. Atteso il chiaro tenore testuale della norma, deve quindi ritenersi che vi sia il diritto alla prestazione sempre che la risoluzione del rapporto di lavoro sia riferibile, non a una libera determinazione del lavoratore, ma a un fatto altrui, normalmente del datore di lavoro, idoneo a non consentire comunque la prosecuzione del rapporto.
La legge non richiede tuttavia l’ingiustizia della determinazione del terzo cui si riferisce la risoluzione del rapporto o l’estraneità del lavoratore rispetto alla fattispecie risolutiva, tanto che la prestazione è sicuramente dovuta anche in caso di licenziamento legittimamente intimato per giusta causa.
Ciò detto, non può poi dubitarsi che l’esercizio anche legittimo dei poteri datoriali possa determinare modifiche essenziali dei contenuti del rapporto tali da rendere sostanzialmente impossibile per il lavoratore, nella concreta situazione di fatto, proseguirne l’esecuzione, come tipicamente può avvenire appunto in caso di mutamento rilevante della sede o dei turni di lavoro.
In tali casi, ad avviso della Corte, la risoluzione del rapporto è in effetti causalmente riferibile al potere organizzativo datoriale e quindi la disoccupazione è involontaria, senza che rilevi, ai fini previdenziali, la legittimità̀ o meno dell’atto di esercizio dello jus variandi (esattamente come non rileva la legittimità del licenziamento).
E’ del resto una conclusione cui è pervenuto lo stesso istituto di previdenza, dato che, con la propria circolare 142/2012, ha ritenuto sussistere i presupposti per il pagamento dell’indennità̀ di disoccupazione (ma la previsione è pacificamente applicata anche alla Naspi) anche quando il rapporto di lavoro sia stato risolto consensualmente all’esito di trasferimento del lavoratore assicurato verso una sede distante oltre 50 km dalla sua residenza o situata in un luogo raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici.
Sembra al collegio che, come correttamente argomentato dalla difesa attrice, tale fattispecie sia, ai fini di interesse, del tutto identica a quella di causa. Nell’uno e nell’altro caso, infatti, a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro risulta essere l’esercizio dei poteri organizzativi datoriali, mentre la circostanza che il fatto giuridico produttivo della risoluzione sia un accordo o invece una manifestazione di volontà riferibile al lavoratore non muta la relazione causale comunque esistente tra la fine della relazione negoziale (e quindi la disoccupazione del lavoratore) e l’atto di esercizio dello jus variandi.
Dimostrato quindi che nella specie il trasferimento sia avvenuto a oltre 50 km dal luogo di residenza della lavoratrice e verso una località raggiungibile da quel luogo in oltre 80 minuti con i mezzi pubblici, e che si sia data quindi una modifica unilaterale e sostanziale di un elemento essenziale del rapporto, la risoluzione del rapporto medesimo deve intendersi determinata da un fatto del datore di lavoro così che la disoccupazione dell’assicurata deve qualificarsi come involontaria.” Conseguentemente la Corte di Appello ha condannato l’Inps a corrispondere alla lavoratrice l’indennità della Naspi con condanna dello stesso istituto alla soccombenza delle spese di lite del doppio grado.
Corte di Appello di Firenze sezione lavoro sentenza n. 258 pubblicata il 2 ottobre 2023.
Biagio Cartillone