L’Unione europea continua a chiedere esplicitamente riforme in materia di lavoro, e non solo per quanto riguarda l’età pensionabile. Il Governo, anche per bilanciare i tentennamenti sulla riforma delle pensioni, ipotizza ora un percorso che prevede essenzialmente una stretta sulle collaborazioni autonome in cambio di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con una nuova disciplina del licenziamento per motivi economici. Gli intenti sono assai generici e quindi difficili da commentare, ma chi ha a cuore le riforme non può sottrarsi al confronto perché partendo da quella traccia si possono trovare soluzioni ragionevoli per tutti, anche senza modificare l’art. 18. Soprattutto ora non possono sottrarsi i riformisti di sinistra e del terzo polo che fino ad oggi hanno con convinzione cavalcato il progetto di legge del contratto unico che mira proprio a modificare la disciplina dell’art. 18. Insomma, il governo propone una riforma che ricalca almeno lo spirito della proposta del contratto unico e l’occasione è giusta per cercare di capire se quella è la strada giusta da seguire oppure no.
Personalmente, e da tempo, esprimo qualche perplessità su questo percorso di riforma perché sono convinto che lo scambio possa e debba possa essere impostato in termini diversi, e non solo per il timore della conflittualità che ogni proposta di modifica dell’art. 18 inevitabilmente alimenta.
La stretta sulle collaborazioni autonome può infatti essere bilanciata: a) da una semplificazione dei contratti di lavoro subordinato flessibili; b) da una maggiore flessibilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che non tocchi la fase dell’uscita; c) dalla razionalizzazione degli strumenti già esistenti per la riduzione degli organici in presenza di una riduzione di attività, e non anche delle sanzioni previste in caso di violazione della legge (reintegrazione).
Nel dettaglio:
– la stretta sulle collaborazioni autonome è certamente auspicabile ma non è necessario vietarle perché c’è un mercato delle professionalità intellettuali che apprezza la libertà di organizzazione dei tempi di lavoro implicita in quei contratti e che aspira, piuttosto, ad incrementare i compensi. Ciò che è indispensabile è incrementare il livello di protezione dei diritti essenziali (incrementare oneri contributivi, tutela della malattia, della maternità, accesso al credito) e vietare che questi contratti vengano utilizzati per i lavoratori cui viene corrisposto un compenso troppo basso. Chi guadagna meno di mille euro non può e non deve lavorare con collaborazioni autonome. Chi guadagna più di duemila euro deve poter stipulare questi contratti senza esporre il datore di lavoro a un rischio eccessivo di contenzioso, e per fare ciò basta ridefinire con maggiore precisione i presupposti di accesso alle collaborazioni autonome;
– servono regole più chiare per l’utilizzo dei contratti di lavoro subordinato flessibili (contratti a termine, somministrazione, ecc..). La nuova flessibilità dei contratti di lavoro subordinato temporanei introdotta a partire dal 2001 non è stata assistita da un’adeguata tecnica legislativa e ciò ha comportato la diffusione di un enorme ed imprevedibile contenzioso che ha gravemente disorientato il mercato colpendolo nella sua primaria esigenza: quella della certezza della regola. Ci sono imprese che hanno chiuso perché sovrastate dal contenzioso. La questione ha assunto una tale portata che nel 2010 il Parlamento ha dovuto licenziare un testo di legge, il cosiddetto collegato lavoro, il cui scopo esplicito è proprio quello di contenere il contenzioso restringendo gli spazi di impugnazione del lavoratore, ma non ancora chiarendo la regola che ne consente un utilizzo temporaneo. Basterebbe stabilire che il limite di utilizzo di questi contratti è solo riferito al tempo, eliminando di conseguenza i presupposti causali. Si deve poter lavorare a tempo determinato per un periodo massimo stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva, eliminando ogni diverso presupposto di legittimità;
– la disciplina del rapporto di lavoro (che è cosa diversa da quella della sua risoluzione) è il cuore del problema. L’art. 8 della manovra 2011 affida alla contrattazione collettiva il compito di derogare la legge su materie fondamentali quali, ad esempio, l’inquadramento e l’orario di lavoro. Il legislatore dovrebbe assumersi le sue responsabilità e riformare per legge queste materie, se è vero che l’attuale assetto delle relazioni industriali non fa ben sperare sulla concreta funzionalità dell’art. 8. Secondo un modello di welfare progressivo si potrebbe, ad esempio, graduare il livello di flessibilità del lavoro subordinato prendendo come parametro la retribuzione pattuita. Chi guadagna di più deve poter essere più flessibile, ad esempio, per quanto riguarda inquadramento ed orario di lavoro;
– in caso di difficoltà economica le imprese dispongono di uno strumento per ridurre il personale: si chiama procedura di mobilità, si conclude con il licenziamento e prevede il coinvolgimento dei sindacati anche per l’individuazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero. Questa procedura è lunga, farraginosa e troppo esposta al rischio di contenzioso a causa di evidenti ambiguità del testo legislativo ormai bene evidenziate dalla giurisprudenza degli ultimi venti anni. Per consentire alle aziende di adeguare rapidamente gli organici alle esigenze del mercato è fondamentale semplificare questa disciplina in modo da garantire certezza dei tempi e del risultato. Ma non si tratta di modificare anche la sanzione dell’art. 18. E’ sufficiente chiarire meglio all’impresa cose deve fare e come deve farlo ed in caso di violazione il lavoratore continuerebbe ad essere reintegrato.
Insomma, anche senza modificare l’art. 18 molto si può fare e questo è il momento per parlarne, in Parlamento e fuori.
Marco Marazza