Avanti, piano. E’ questo il ritmo con cui procede il convoglio che dovrà giungere, prima o poi, al rinnovo dei contratti nazionali di lavoro del pubblico impiego, dopo una delle più lunghe “vacanze” contrattuali della storia repubblicana. Per ora, è stata percorsa una prima tappa, importante ma non ancora risolutiva: si tratta, come è noto, dell’intesa raggiunta il 30 novembre scorso al Dipartimento della funzione pubblica. L’accordo, siglato alla vigilia del referendum costituzionale, dovrebbe rappresentare la cornice entro cui svolgere i rinnovi dei quattro comparti (e delle aree dirigenziali) previsti per legge, e non si tratta di una cornice di poco conto. Approfittando, più che della propria forza, della disponibilità di una controparte governativa in quel momento alla disperata ricerca di consensi, i sindacati hanno ottenuto il 30 novembre di includere nel testo dell’accordo il sostanziale rovesciamento dell’architrave su cui poggiava la riforma Brunetta, cioè la prevalenza della fonte legislativa su quella contrattuale.
Sicchè. nel nuovo sistema prefigurato dall’accordo, il contratto dovrebbe non solo riprendersi la priorità che gli aveva a suo tempo assegnato la riforma Bassanini, ma entrare perfino in un ambito che anche nell’assetto previgente a Brunetta era sempre rimasto “in bilico”, quello cioè degli “assetti organizzativi”, sia pure quelli “direttamente pertinenti” alla “disciplina del rapporto di lavoro, dei diritti e delle garanzie dei lavoratori”. L’intesa prevede poi l’ingresso della contrattazione nei meccanismi di valutazione, anche individuali, e la creazione, sempre attraverso i contratti, di un “ambiente organizzativo e del lavoro” capace di venire incontro alle “esigenze dei cittadini e degli utenti” ma anche, ovviamente, di contrastare “situazioni di disaffezione e demotivazione” del personale”. Infine, poiché i contratti si fanno com’è noto anche per denaro, l’intesa prevede aumenti mensili medi (non si dice se lordi o netti) pari a 85 euro.
Si può dunque dire , alla luce dell’accordo, che l’andamento pendolare delle relazioni industriali nel pubblico impiego si sia di nuovo spostato dal lato dei sindacati? Non è detto. Non è detto, prima di tutto perché nelle relazioni di lavoro del pubblico impiego un’importanza decisiva continua ad averla la legge,e infatti l’accordo di novembre si autoassegna il compito di orientare (nel più puro stile concertativo), i contenuti dell’ultimo decreto delegato da emanare (a parte quelli emanati e poi bocciati dalla Corte) a norma della cosiddetta “riforma Madia” (l. 124/2015) . Il fatto è che una cosa è scrivere accordi al tavolo con i sindacati, e una cosa assai diversa è trasporne poi i contenuti in legge, dovendo, da una parte, osservare più o meno fedelmente i contenuti della delega, ma soprattutto dovendo attraversare una discussione nelle commissioni parlamentari che deve fare i conti con una maggioranza di cui sono parte integrante gli ultras della riforma che l’accordo del 30 novembre si è incaricato di sconvolgere. Il tutto in una fase politica che definire incerta è un eufemismo .
Il testo del decreto delegato è attualmente in fase di costruzione, e per ora se ne possono conoscere solo alcuni aspetti. Per quello che ne sa, è molto probabile che esso cerchi di percorrere la strada di modifiche limitate , con aperture di principio al ruolo della contrattazione, ma probabilmente senza andare a incidere davvero in profondità nei numerosi aspetti in cui la riforma del 2009 ha circoscritto, nell’intento di asfissiarla più che di contenerla, la contrattazione, soprattutto quella integrativa. Una questione cruciale, ad esempio, è proprio quella dell’esclusione della contrattazione dalle materie “organizzative” , che ha determinato in questi anni il diniego da parte di molte amministrazioni di ricondurre a contrattazione molte materie contenute dei contratti collettivi tuttora vigenti, con il relativo scatenarsi di un contenzioso davanti ai tribunali. Un altro tema delicatissimo è quello della valutazione, che era stato fino alla fine dello scorso decennio materia diffusamente trattata dai contratti e che la riforma Brunetta ha invece costretto entro le maglie di una rigida e pletorica disciplina legislativa. Qui sarà cruciale il problema di quali saranno gli spazi rispettivamente affidati alla legge e alla contrattazione. Un altro aspetto destinato a far discutere è quello delle sanzioni disciplinari. Qui vi sarà con ogni probabilità la riaffermazione della “riserva indiana” della tutela reale contro i licenziamenti illegittimi, ma si tratterà di capire quali saranno le possibilità di deroga alle norme disciplinari imposte per legge da parte dei contratti.
Adesso si tratta di vedere quale sarà il destino del decreto delegato, i cui tempi tecnici per l’approvazione definitiva proiettano verso la primavera inoltrata, e quali saranno i contenuti degli atti d’indirizzo, che potrebbero, magari utilizzando qualche apertura di principio contenuta nel decreto, spingersi nel senso di un ampliamento degli spazi per la contrattazione, sulla falsariga dell’accordo di novembre.
In realtà, il problema di fondo resta sempre quello di una “privatizzazione” del rapporto di lavoro pubblico, sempre proclamata e mai compiuta, anzi per moltissimi aspetti negata nel momento stesso in cui si proclamavano rosei orizzonti manageriali. Da un lato, un settore privato nel quale si aprono spazi ( almeno in teoria) sempre più ampi alla contrattazione di secondo livello, e un settore pubblico in cui la si recinta con il filo spinato. Da un lato, una cultura manageriale che proclama la partecipazione e la gestione perfino congiunta dei processi lavorativi, e dall’altro un settore pubblico nel quale si costruisce una figura dirigenziale (nella scuola!!) con lo sguardo all’indietro, verso scenari fordisti.
Mario Ricciardi