Nonostante frizioni nella Ue anche vistose – su migranti, energia, riforme di casa nostra – Giorgia Meloni ha, finora, sostanzialmente tenuto a bada le pulsioni sovraniste che sobbollono nella sua maggioranza, impedendo alla retorica antieuropea, che percorre i partiti vincitori delle ultime elezioni, di venire alla superficie e compromettere il delicatissimo – in tempi di Pnrr e di debito montante – rapporto di Roma con Bruxelles. Non era scontato. Ma non è scontato neanche che duri a lungo. Se si solleva un momento lo sguardo e si guarda appena poco più in là, infatti, si vede delinearsi lo scenario di uno scontro, che viene da definire esistenziale, fra due diverse idee d’Europa, in cui quella promessa di una comunità sempre più stretta, capace di una risposta unitaria alla pandemia, poi alla crisi dell’energia – l’Europa di NextGen, degli eurobond, degli approvigionamenti comuni di gas, in prospettiva dell’unione bancaria e della difesa comune – rischia di soccombere ad un nazionalismo di ritorno. E ha ragione Il Sole-24 ore a chiedere a Giorgia Meloni come si collocherebbe in questa vistosa marcia indietro.
Una svolta che potrebbe essere dietro l’angolo. La sconfitta di Sanna Marin in Finlandia allunga la lista dei governi europei a trazione di centrodestra, un fattore destinato a pesare negli equilibri delle decisioni intergovernative. Soprattutto, è un segnale in vista delle elezioni europee del prossimo anno, dove la posta in gioco sarà diversa dal solito e, anche, inedita. La Ue si regge, da sempre, sull’alternanza-coabitazione fra moderati e riformisti. Per semplificare, democristiani e socialisti, con variegate forme di appoggio e dialogo con liberali e verdi. In buona sostanza, tutti i partiti europeisti, con esclusione di tutti gli euroscettici. Ma, a Berlino, Angela Merkel non c’è più e le elezioni potrebbero segnare uno storico distacco del Ppe – i popolari europei – dall’intesa con il centro sinistra, inaugurando un’alleanza a destra con i Conservatori, il gruppo di cui Giorgia Meloni è ufficialmente leader dal 2020.
Dipenderà, naturalmente, dai risultati elettorali. Ma come si sposterebbe l’asse della politica europea? Inutile chiederlo – oggi – a Giorgia Meloni. Tuttavia, uno dei leader riconosciuti dei Conservatori della Meloni, il polacco Mateus Morawiecki, ha pronunciato nei giorni scorsi, all’università di Heidelberg, un discorso che ha il respiro e l’ambizione di un autentico manifesto ideologico. Di cosa? Del sovranismo a livello europeo. Cosa dice, dunque, Morawiecki?
Il perno del suo manifesto è un peana allo Stato-Nazione, non inaspettato per chi ha alle spalle il dramma secolare della Polonia, ma che, nell’Europa attuale, fa rumore. “Sistemi diversi dalla Stato-Nazione – dice il premier polacco – per garantire la libertà, la cultura, la sicurezza sociale, economica, politica e militare sono illusori e utopistici”. Tutto il discorso è rivolto contro “l’autocrazia burocratica, che qualcuno coltiva a Bruxelles”, contro “le decisioni prese dietro porte chiuse”, contro la spinta verso “un superstato centralizzato”. Non mancano riferimenti un po’ sinistri e, francamente, inquietanti anche nella scelta delle parole, a “una élite cosmopolita paneuropea con immensi poteri, ma senza mandato elettorale” – nonostante le imminenti elezioni – contro la quale Morawiecki non esita ad evocare il parallelo storico di rivolte nazionali come nel 1848: Ursula von der Leyen come (il riferimento all’antico cancelliere absburgico, nel discorso di Morawiecki, è esplicito) Metternich.
Il premier polacco non lesina, insomma, sulla grancassa di accuse e minacce. Le indicazioni operative sono, in realtà, meno esplosive, ma, nei fatti, ugualmente dirompenti. La Ue deve restituire, in nome del principio della sussidiarietà, ai governi nazionali tutti i poteri che non siano giustificati da necessità sovranazionali. Soprattutto, occorre ribadire, una volta per tutte, il principio che tutte le decisioni vanno prese all’unanimità. Anche se, e quando, l’Unione si allargasse ancora (come lo stesso Morawiecki auspica). Niente maggioranze qualificate, neanche con 35 membri o anche più, ognuno, dunque, con potere di veto.
E’ la ricetta della paralisi o, comunque, della castrazione di Bruxelles. Un perimetro in cui progetti visionari come il mercato unico, l’euro, la Corte di giustizia, gli eurobond, l’antitrust europea difficilmente avrebbero visto la luce. In quell’Europa, l’Italia potrebbe serenamente garantire concessioni balneari eterne ai nostri megabagnini, ma difficilmente potrebbe contare sulle sponde a sostegno del nostro debito pubblico o sui megafinanziamenti del Pnrr. E’ la madre di tutte le contraddizioni del sovranismo di Giorgia Meloni. Vedremo l’anno prossimo.
Maurizio Ricci