I cambiamenti climatici, spiega Onofrio Rota, segretario generale della Fai-Cisl, al Diario del lavoro, sono, purtroppo, destinati a diventare permanenti e non più emergenziali. La mancanza d’acqua che in queste settimane sta assetando la nostra agricoltura ne è un forte esempio. Per il numero uno degli alimentaristi della confederazione cislina la loro gestione passa attraverso un’azione concertata tra sindacati, imprese e governo. Sul fronte Ucraina, spiega Rota, non stiamo riscontrando carenza di materie prime e nessun stabilimento rischia di fermarsi. Quello che ci preoccupa, spiega, sono i costi secondari di vetro, logistica, packaging e fertilizzanti, che alla fine si riverseranno sulle tasche dei consumatori.
Rota è possibile quantificare l’impatto di queste settimane di siccità?
Fare una stima dei danni sulle coltivazioni e delle ripercussioni sull’occupazione è al momento difficile e prematuro. Le immagini di questi giorni e i racconti delle organizzazioni degli agricoltori certamente non fanno ben sperare. Alcune colture, più di altre, penso ai cereali e ai frutti, risentiranno maggiormente della siccità.
Che tipo di approccio serve per affrontare questa situazione?
I cambiamenti climatici non sono più un’emergenza temporanea, ma un dato sul quale dobbiamo fare i conti in modo permanente. Lo stesso vale per la siccità. Questo richiede il passaggio da una gestione emergenziale a una strutturale. Negli ultimi 25 anni c’è stato un calo del 25% delle precipitazioni, e solo l’11% delle acque piovane e nevose viene raccolto, mentre il resto finisce in mare.
Quali azioni sono necessarie?
Serve un’azione concertata tra sindacati, imprese e governo per fornire tutti i territori delle infrastrutture necessarie e mettere sul campo le nuove competenze legate a un’agricoltura 4.0, sempre più di precisione e attenta nella gestione delle risorse idriche, grazie anche agli 880 milioni del Pnrr destinati alle strutture irrigue. Bisogna dotare i territori di impianti a pioggia e manichette, praticare rotazioni, costruire invasi, qualificare i consorzi di bonifica anche in termini di produzione energetica, con la possibilità di installare pannelli fotovoltaici galleggianti, senza consumare altro suolo agricolo. Per questo è bene ridurre anche la produzione di energia idroelettrica perché l’acqua non è un patrimonio infinito. In quest’ottica si può coniugare la tutela del suolo e delle risorse naturali con la transizione ecologico ed energetica. E soprattutto vanno difese le aree verdi che sono le vere sentinelle contro i cambiamenti del clima.
Che apporto possono dare i lavoratori?
La gestione dell’acqua e della sua mancanza si affrontano partendo dalla valorizzazione del capitale umano. La promozione di una buona contrattazione e della bilateralità, per migliorare il mercato del lavoro e la qualità dell’occupazione, sono presupposti necessari. I lavoratori devono essere formati alle innovazioni tecnologiche che ormai riguardano trasversalmente l’intero settore agroalimentare. Proprio in questi giorni è scoppiata una nuova polemica su alcuni consorzi di bonifica siciliani, dove i lavoratori non percepiscono lo stipendio da quattro mesi, una cosa intollerabile, una mala gestione con la quale non andiamo da nessuna parte, specialmente davanti ai cambiamenti climatici e alle urgenze dell’agricoltura.
Venendo alla guerra in Ucraina, quali ripercussioni sta avendo per il nostro sistema agroalimentare?
Al momento non stiamo riscontrando una carenza di materie prime. Il grosso problema sono i costi secondari che ruotano attorno all’agroalimentare, dal vetro, al packaging fino alla logistica. Certo quello della carenza dei fertilizzanti è un tema che colpisce anche noi. Le produzioni ucraine, tuttavia, sono principalmente destinate ai paesi in via di sviluppo. In Italia non c’è uno stabilimento che rischia di fermarsi perché dall’Ucraina non arrivano le risorse necessarie. Certamente l’aumento di questi costi secondari, alla fine, si ripercuoterà anche sulle tasche dei consumatori, nonostante tutti gli sforzi del settore per contenerli al suo interno.
Si parla molto di raggiungere il più rapidamente possibile un’autonomia energetica. È possibile la stessa cosa anche sul piano alimentare?
L’autosufficienza alimentare è destinata a rimanere un’utopia. Il nostro grano non sarà mai sufficiente per produrre tutta la farina della quale abbiamo bisogno. È pur vero che le scelte fatte negli scorsi anni dalla politica agricola europea non sempre sono andate nella giusta direzione. In passato l’Italia era un paese esportatore di zucchero, con 21 stabilimenti sul territorio nazionale, oggi, invece, lo dobbiamo importare e a produrlo restano solo due impianti.
Tommaso Nutarelli






























