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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Se la buona volontà non basta a fare l’accordo

Se la buona volontà non basta a fare l’accordo

di Massimo Mascini
4 Dicembre 2015
in L'Editoriale

Il dialogo interno alle tre confederazioni sindacali per mettere a punto una proposta sulle nuove regole per la contrattazione sta camminando speditamente. L’obiettivo dei tre segretari confederali Cgil, Cisl e Uil che stanno lavorando a questo progetto è quello di arrivare alla fine dell’anno con uno schema condiviso, almeno nelle parti generali, le più importanti, per presentarlo ufficialmente alle tre confederazioni. Poi ci sarà un passaggio interno a ciascuna organizzazione per la validazione delle scelte fatte e a gennaio tutto dovrebbe essere pronto per aprire il confronto con le controparti imprenditoriali. Una corsa contro il tempo perché sta per scadere il margine lasciato alle parti dal governo prima di intervenire direttamente su questa materia con un provvedimento di legge. Date certe per questo intervento non ce ne sono, ma è evidente che se si va avanti a lungo senza un accordo l’esecutivo interverrà, nonostante queste siano materie di stretta competenza delle parti sociali.

Faranno a tempo? E’ difficile dirlo, perché gli ostacoli sono molti e pesanti. Le tre confederazioni, pero’, hanno una gran voglia di trovare un accordo, e l’input che i segretari incaricati della trattativa hanno ricevuto dai loro vertici è preciso. Dopo tanti mesi c’è effettivamente un clima diverso, fattivo, tale che può aiutare a superare le difficoltà. Nelle riunioni che si stanno susseguendo nessuno porta avanti le argomentazioni della propria parte, si privilegia la ricerca di un accordo, si smussano le posizioni, non c’è nulla di inamovibile. Un elemento importante, ma, appunto, non sufficiente. Perché l’accordo va poi trovato anche con gli imprenditori. E non solo con la Confindustria, ma con tutti: i commercianti, le cooperative, gli artigiani forse. E gli obiettivi che il sindacato può mettere a fuoco non sono necessariamente condivisi dalle controparti.

Un esempio vale per tutti. Nel dialogo che ha avuto luogo in questi giorni si è trovato un accordo sul fatto che gli aumenti salariali decisi nella contrattazione nazionale devono essere diretti a salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni, ma anche ad aumentarle sulla base della crescita economica del comparto. Un cambiamento radicale rispetto al passato. L’accordo del 1993 in effetti prevedeva anche un possibile aumento delle retribuzioni anche al di là del semplice mantenimento del potere di acquisto, ma nei fatti questo non è mai accaduto, per finire nel disuso. L’accordo del 2009 poi non prevedeva altro che il rimborso di quanto perso con l’inflazione e nemmeno tutto, perché non si computavano gli aumenti dei prezzi dell’energia importata. I sindacati adesso hanno invece deciso che anche in sede di contratto nazionale deve essere possibile prevedere aumenti superiori all’inflazione. Ora, va bene che l’inflazione è molto bassa, ma non sarà facile convincere gli imprenditori ad accettare di prendere in considerazione aumenti retributivi superiori all’inflazione. Possono farlo, e si sono dichiarati pronti a farlo, ma in sede aziendale, in presenza di una crescita della produttività, e magari solo a consuntivo. Prevederlo in sede nazionale è tutta un’altra storia.

E questo è solo un esempio, anche se importante. Il problema è che mettere a punto un nuovo sistema di contrattazione, rivisto profondamente, è una cosa molto laboriosa e non risulta che ci siano gli approfondimenti che servirebbero in questo caso. E’ un discorso che comincerebbe quasi da zero e arrivare a un accordo può risultare davvero molto difficile. Questo non significa che necessariamente la partita sia persa e ci si debba attendere a breve un provvedimento del governo, perché difficilmente l’esecutivo potrebbe intervenire in presenza di un dialogo fattivo e serrato. Ma certamente se questo confronto dovesse partire con molto ritardo o sfilacciarsi in corso d’opera, allora forse tutto potrebbe risultare vano e la situazione precipitare. Sarebbe una cosa molto negativa, perché il ruolo, e quindi la credibilità delle parti sociali ne risentirebbero in maniera evidente, e la caduta della presenza e dell’attività delle parti sociali sarebbe un danno per tutta la collettività. Le relazioni industriali possono essere un fattore potente di crescita, anche economica, certamente sociale e politica del paese e rinunciarvi, anche solo in parte, sarebbe una cosa assai negativa. Ne risentirebbe lo stesso equilibrio democratico del nostro paese.

Massimo Mascini

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