Di Maurizio Ricci
Il mantra che hanno recitato, negli ultimi cinque anni, tutte le autorità europee, da Bruxelles a Francoforte, è facilmente riassumibile in tre parole: austerità più riforme strutturali. Tagliare i bilanci e, contemporaneamente, aumentare la concorrenza sui mercati, a cominciare da quello del lavoro, rendendo più facile assumere e licenziare, riducendo il potere dei sindacati e, di fatto, tagliando i salari. Come dimostra il braccio di ferro con la Grecia, il mantra è ancora vivo e vegeto. Il problema, cominciano a dire a voce sempre più alta gli economisti, è che non funziona.
Sull’austerità sta, quietamente, calando il sipario. Con gli acquisti in massa di titoli pubblici da parte della Bce e la flessibilità concessa dalla Commissione Ue a Italia e Francia sui bilanci si sta affermando il principio che, se non riparte la domanda, le entrate fiscali diminuiscono, invece di aumentare e questo rende più difficile onorare il debito pubblico. Ma anche le riforme strutturali, fino a ieri una sorta di icona intoccabile, cominciano ad incontrare scetticismo. O, meglio: le riforme strutturali piacciono a molti economisti. Ci si può chiedere perchè i politici europei si siano convertiti in massa all’idea che la scure deve essere usata senza quartiere su pensioni e salari, piuttosto che altrove. Ma, in generale, gli economisti ritengono che un mercato del lavoro più fluido, un sistema fiscale più efficiente, meno rendite di posizione costituiscano una piattaforma utile ad uno sviluppo più vivace dell’economia. A lungo termine, però. A breve termine, possono aggravare i sintomi.
In termini generali, le riforme strutturali abbassano il tasso di inflazione. La maggiore competizione di settori precedentemente chiusi (dai notai alle farmacie) ne abbassa i prezzi, la maggiore facilità di licenziamento abbassa i salari. In condizioni normali, questa tendenze deflazionistiche vengono compensate dalla banca centrale con tagli ai tassi di interesse. Ma con i tassi già a zero, la banca centrale non può tagliare più. Al contrario, la deflazione aumenta i tassi reali di interesse (esattamente come, all’opposto, l’inflazione li abbassa) e strangola l’economia.
Insomma, le riforme rischiano di deprimere, anzichè stimolare la domanda. Con effetti anche paradossali. Tutti siamo d’accordo che è opportuno limitare al minimo l’evasione fiscale. Ma con una recessione in atto, il momento meno opportuno per drenare l’acqua in cui nuotano le imprese è esattamente questo. I soldi recuperati verranno infatti spesi, assai meglio, più avanti. Ma l’evasore spende subito.
Le riforme dunque, possono essere “recessive”, tanto più quanto sono importanti. Non tutti sono d’accordo. Uno studio degli economisti della Commissione di Bruxelles riconosce gli effetti delle riforme sul Pil, ma stima che siano assai limitati. Tuttavia, l’insegnamento che se ne trae è che o le riforme vanno compensate subito (nel Jobs Act italiano ai licenziamenti facili si affiancano gli incentivi ad assumere) oppure le riforme è meglio annunciarle, ma realizzarle solo quando la crisi è passata. Dicono i medici che, per curare una malattia, sono cruciali le dosi di una medicina e i tempi di somministrazione. Pare che sia l’errore in cui sono inciampati i dottori di Bruxelles, Francoforte e Berlino, imponendo austerità e riforme subito, invece che dopo la crisi.