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Home - Approfondimenti - Interviste - Sergio Gasparrini, Alla pubblica amministrazione serve una potente iniezione di chiarezza.

Sergio Gasparrini, Alla pubblica amministrazione serve una potente iniezione di chiarezza.

di Massimo Mascini
1 Luglio 2020
in Interviste
Sergio Gasparrini, Alla pubblica amministrazione serve una potente iniezione di chiarezza.

Ma può naufragare la pubblica amministrazione e con essa anche l’economia del nostro paese? Sergio Gasparrini, per otto anni presidente dell’Aran, l’agenzia che tratta con i sindacati i rinnovi dei contratti pubblici, da un anno prestato alla Corte dei conti, non lo esclude. Ma sarebbe un accidente, e sarebbe comunque colpa di una politica miope, che non riesce a guardare ai problemi veri. La via maestra è quella della riforma, impellente perché le complessità della macchina burocratica sono tantissime, forse insormontabili. Ma ci si deve provare. Cominciando col fare chiarezza su chi deve prendere le decisioni. I soggetti che intervengono in un processo decisorio sono spesso tanti e la confusione è massima. Fare chiarezza, dunque, anche se non è facile, come sa bene Renzi che scivolando sul referendum costituzionale non è riuscito in questa difficile impresa. E poi occorre stabilire una volta per tutte a chi è affidata la gestione della pubblica amministrazione, se alla dirigenza, come si decise nel 1993, o invece alla politica. Chiariti questi punti si può pensare a tutto il resto, sapendo che solo con un ricorso massiccio alla formazione l’amministrazione pubblica potrà riuscire dai sui guai.

Gasparrini, lei pensa che la pubblica amministrazione sia in grado di aiutare l’economia del nostro paese in questo momento di difficoltà? O deve essere oggetto di una profonda ristrutturazione?

La macchina della pubblica amministrazione presenta delle complessità già note, oggi forse insormontabili. Ampi settori dell’amministrazione pubblica dovrebbero essere ripensati, riorganizzati, i problemi da risolvere sono tantissimi.

Dove è possibile intervenire? Quali i settori che sarebbe opportuno rimodellare?

La prima cosa da decidere parlando dei ritardi, delle deficienze dell’amministrazione è se si deve intervenire sulle regole, sulle procedure o invece sulle persone. Due aspetti spesso messi in sovrapposizione, ma che devono essere distinti perché meritano un differente approccio.

Lei dove pensa sia più utile iniziare?

Io per mestiere mi sono sempre occupato delle persone, delle regole disposte perché le persone dessero il meglio che potevano, perché rendessero di più. Lo abbiamo fatto con i contratti nazionali, con gli incentivi che potevano stimolare la produttività degli interventi. Tutto abbiamo esplorato, quello che potevamo fare lo abbiamo fatto. Per questo penso che forse sarebbe opportuno concentrarsi adesso sui processi decisionali. Perché spesso la responsabilità di un atto è diffusa su una molteplicità di soggetti che difficilmente cooperano tra loro, per lo più sono portatori di interessi divergenti.

Questo provoca problemi di gestione?

Certo, decade la funzionalità della struttura burocratica. Per questo bisogna fare chiarezza tra i diversi soggetti chiamati a prendere delle decisioni, comuni, province, regioni, città metropolitane, enti e così via.

Impresa non facile.

Sì, perché bisogna rivedere anche delle regole costituzionali e, lo abbiamo visto con il recente referendum, non è mai facile intervenire così in profondità. Ma la prima cosa da fare è questa, stabilire chi sia abilitato a prendere delle decisioni, e solo dopo semplificare i procedimenti.

Esistono anche problemi legati alle persone però.

Nessuno li nega. Il principale imputato del cattivo funzionamento della macchina è la dirigenza. Sono stati fatti tanti tentativi per renderla più partecipe, ma hanno sempre dato scarsissimi risultati.

Come mai questa scarsità di esiti?

Forse a causa di quanto decise nel 1993, quando si affidò alla dirigenza la responsabilità degli atti, fino a quel momento prerogativa della politica. Si operò questa trasformazione a seguito di quanto era occorso negli anni immediatamente precedenti, era il tempo di Tangentopoli. Dopo gli scandali avvenuti si preferì che i politici si limitassero a dettare gli indirizzi dell’azione amministrativi, ma la gestione rimanesse nelle mani della dirigenza.

Questa divisione non ha funzionato?

Nei primissimi anni sì, ha risposto alle esigenze espresse. I politici non hanno più preso parte alla gestione della macchina amministrativa. Ma questo stato di cose non è durato molto. Presto la parte politica non si è più accontentata di limitarsi alla funziona di indirizzo e ha ripreso a partecipare alla gestione. La dirigenza non è stata però contenta di firmare atti decisi da altri, di doversi accollare responsabilità di decisioni prese dalla politica, mentre avrebbero dovuto essere prese solo sulla base di procedure bel definite. Il braccio di ferro si è concentrato soprattutto nelle decisioni in cui era prevista una rilevante spesa pubblica.

Come è finita?

Non è finita. Si sono contrapposte, e lo fanno tuttora, due scuole di pensiero. Una appoggia lo spoil system affermando che la cosa migliore è che il pubblico dipendente decida come intervenire, ma poi, passato un certo periodo, possa e debba essere giudicato su ciò che ha fatto, se l’ha fatto bene o invece no. E nel caso possa anche perdere il lavoro.

L’altra scuola di pensiero?

L’altra, di segno opposto, non dà alla politica la possibilità di giudicare il dirigente, ritenendo che questi sia chiamato a decidere solo sulla base di un iter stabilito dalla legge. Uno scontro che si protrae da quasi trent’anni e del quale non si intravede una soluzione.

Forse si è sbagliato nel 1993.

Ma allora fu una scelta inevitabile, solo che il confine al di là del quale deve restare la politica è talmente labile che non può non essere continuamente invaso. La separazione di compiti tra il ministro e un direttore generale è logica, ma nella realtà è difficile da applicare. Anche perché è necessario poter distinguere tra le diverse fattispecie.

Quali fattispecie?

Non è la stessa cosa se si deve prendere una decisione in una grande realtà, quale che questa sia, o invece in una molto piccola. Prendiamo il sindaco di un piccolo paese che decide di far tagliare le erbacce dal giardino comunale e provvede di conseguenza: dà l’incarico a una ditta, ma poi gli si dice che non lo può fare, che deve limitarsi a dettare indirizzi generali. I modelli astratti, anche se ben congegnati, non funzionano più se applicati in realtà molto diverse. Non è lo stesso per un comune grande o uno piccolo, per un grande ministero, un ente di ricerca, l’Inps, l’Inail, e così via. Sono tutte realtà diverse tra loro e la pubblica amministrazione è un mare magnum c’è di tutto, le regole di funzionamento dovrebbero essere diverse, molto diverse. I comuni italiani sono 8.100 e solo 500 hanno un funzionario dirigente, tutti gli altri hanno personale molto più basso, ma ai piccoli vengono fatte le pulci come ai grandi.

C’è anche un problema di efficienza dei pubblici dipendenti.

Io non punterei il dito contro il dipendente pubblico, che fa quello che farebbero tutti nelle stesse condizioni. Non nasce caratterialmente peggiore di tanti altri, lavorerebbe tendenzialmente bene. Poi certo ci sono gli alti e i bassi, quelli che vengono etichettati come fannulloni, quelli che si approfittano della situazione, non voglio negare che esistano, ma sarebbe generico non tener conto che le amministrazioni in cui lavorano hanno deficit organizzativi molto forti. Dietro il furbo che striscia cinque cartellini per gli amici assenti c’è un dirigente che non vigila, mentre avrebbe degli obblighi precisi in tal senso.

I pubblici dipendenti sono sufficientemente preparati?

Troppi hanno fatto studi legislativi. Quasi nessuno sa di economia o di organizzazione. Le selezioni vengono fatte su quelle basi, mentre si dovrebbe allargare il ventaglio delle competenze per mescolarle tra di loro e ottenere un risultato migliore.

Colpa di concorsi malfatti?

I concorsi pubblici vengono fatti come si facevano nel 1880. Si guarda per lo più alle competenze giuridiche senza tener conto delle disponibilità al problem solving, della capacità di lavorare in gruppo, della capacità relazionale. Carenze che incidono fortemente sulla funzionalità dell’apparato burocratico.

Il sistema andrebbe rivisto?

Sì, perché impedisce una selezione basata sulle qualità che servono per seguire la corsa della tecnologia.

Carenze di fondo, fino al fatto che si fanno i concorsi sulla base di quiz.

I quiz in realtà sono stati una necessità solo perché a tanti concorsi si presentavano tantissime persone e così una prima selezione veniva fatta con questi quiz, perché solo chi superava una certa soglia di risposte positive veniva ammesso agli esami.  Ma questi poi erano sempre svolti su quelle antiche materie, quasi solo amministrative, e questo non fa certo decollare la qualità della macchina burocratica. Tutto è poi stato aggravato dal blocco del turnover di otto anni decretato nel 2008 che è stato devastante, soprattutto perché ha fatto mancare quel ricambio generazionale invece in quel momento sarebbe stato fondamentale per il rinnovamento.

Servirebbe formazione, tanta formazione?

Moltissima. Ma non le vacanzette pagate di due o tre giorni in aula. Io penso a corsi veloci, svolti on the job, con personale valido, in grado di imprimere una vera svolta a tutto il sistema formativo.  Ci sono tante modalità nuove che dobbiamo importare nella pubblica amministrazione per non perdere altro tempo.

Il massiccio ricorso allo smart working in questi mesi ha aiutato questo processo di sveltimento?

Per essere davvero efficiente lo smart working dovrebbe avere come presupposto l’esistenza di adeguate infrastrutture digitali, di livello, e una modifica dei procedimenti. Senza di ciò potrebbe essere applicato solo ai servizi accessori all’attività core. Il prodotto finale, l’atto, il certificato, la licenza, il contributo, quello che è deve uscire dall’amministrazione in formato digitale perché si abbia una vera trasformazione. Quando daremo al cittadino in forma digitale l’atto del provvedimento che chiede, allora avrà una ragione di essere lo smart working, altrimenti si possono tenere le persone a casa, ma queste non sono inserite in un processo vero di rinnovamento.

Ma sarebbe una vera impresa.

Soprattutto servirebbero un sacco di soldi dovrebbe essere rivista tutta la macchina burocratica. Ma va fatto. In questo momento siamo davvero a un punto di svolta, o si capisce che si deve prendere atto di tutto ciò e si deve procedere per questa strada con coraggio o andiamo a fondo. E temo che questa esigenza non sia stata capita fino in fondo.

L’alternativa?

Se manca la consapevolezza che tutto ciò dobbiamo farlo adesso o mai più, allora siamo destinati a naufragare.

Massimo Mascini

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