Moody’s, la potente agenzia di rating, migliora da stabile a positivo l’outlook sull’Italia. E immediatamente scatta l’entusiasmo delle nostre istituzioni. Palazzo Chigi sottolinea “il segnale di fiducia sulla solidità della nostra economia” e assicura che “si continuerà su questa strada con determinazione”. Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, non sta in sé dalla gioia e afferma che “questo risultato porta un beneficio alle famiglie, alle imprese, perfino alle banche”. Non stupisce il fervore manifestato ai piani alti del paese, ma forse un po’ di realismo non guasterebbe.
Moody’s non ha infatti alzato il rating del nostro paese, ossia il giudizio generale sul nostro sistema economico. Si è limitata ad affermare che le previsioni potrebbero anche migliorare. Senza dimenticare però che al momento questo rating è davvero molto basso, un minimo al di sopra del livello al quale si sconsigliano gli investimenti. È, insomma, cambiata la prospettiva del futuro, ma il presente resta fosco, non giustifica manifestazioni di gioia.
Nel caso specifico l’istituto di rating ha rilevato una nostra “maggiore capacità di assorbire shock economici, un mercato del lavoro solido, bilanci privati in buona salute, un sistema bancario rafforzato”. Giudizi importanti, niente da dire, ma siamo molto lontani dal poter credere di vivere in un sistema economico florido. È bene sottolineare che dall’estero ci guardano con occhio più benevolo, ma tutti i nostri guai restano lì, a sconsigliare brindisi allo sviluppo felice. Neanche avessimo sconfitto la povertà.
Governo e istituzioni sono incappati nello stesso errore commesso in queste stesse settimane a proposito della caduta dello spread, che, è noto, misura la differenza tra i rendimenti dei titoli di stato tedeschi e quelli italiani. Lo spread che saliva e scendeva ci ha dato il batticuore per anni, perché la sua crescita, a volte impetuosa, denunciava lo stato pessimo della nostra economia. Adesso questo indicatore si è abbassato notevolmente. Era al livello 200, poi 150, adesso si attesta attorno a quota 100 e con tutta probabilità scenderà ancora. Ed è immaginabile il tripudio che si genererà e l’entusiasmo che i vari centri di potere politico manifesteranno.
Ma anche qui c’è poco da gioire. A parte il fatto che quella differenza di 100 punti base significa che comunque i tassi praticati a casa nostra sono più alti di almeno un punto percentuale, la differenza tra i due diversi rendimenti è scesa non perché noi siamo migliorati, ma perché i tedeschi stanno male. È il rendimento dei loro titoli a essere sceso, la preoccupazione è che, se la congiuntura tedesca soffre, in parallelo soffriamo anche noi considerando che le due economie sono strettamente collegate.
Tutto questo per chiedere al governo e alle nostre istituzioni più realismo, più attenzione all’effettivo stato della nostra economia. Non dimenticando, per esempio, che 6 milioni di italiani guadagnano meno di 1.000 euro netti al mese, che due terzi di chi ha un lavoro percepisce annualmente meno di 25mila euro lordi, che corrispondono a 1.500 euro netti mensili. Cifre con le quali è sempre più difficile mettere assieme il pranzo e la cena. Sono persone che lavorano, non sono disoccupati, eppure arrancano. E spesso non si curano perché non possono sopportare i costi della sanità privata, e sempre più spesso nemmeno il costo dei ticket.
Il mercato del lavoro è solido, ci dice Moody’s, i contratti a tempo indeterminato aumentano, le ore lavorate un po’ meno, ma il quadro sembra positivo. Anche qui occorrerebbe andare un po’ più a fondo e, considerando le cifre globali del monte retributivo, capire che a crescere è il lavoro nel terziario meno retribuito, quello meno produttivo. Si cresce, ma si vive male. È la triste verità della nostra economia, che il governo e le istituzioni dovrebbero combattere. Ma se non si parte da una concreta analisi della realtà, il compito diventa proibitivo.
Massimo Mascini