di Maurizio Ricci
A volte ritornano. Se non in massa, in numeri significativi. La grande fuga che, negli ultimi dieci, vent’anni portava le aziende verso la Cina, l’Estremo Oriente o, comunque, i paradisi (aziendali) dei salari bassi, bassissimi, sembra conclusa. E, di rimbalzo, molte ritornano, nonostante la crisi o proprio per via della crisi. Il fenomeno è stato chiamato “backshoring” (l’inverso dell’”offshoring”) e ha avuto un’intensa accelerazione negli ultimi anni: l’80 per cento dei ritorni avviene dopo l’esplosione della crisi del 2008. A muoversi sono, soprattutto, le aziende americane: ne sono rimpatriate 134, per il 60 per cento dalla Cina. Ma, subito dopo gli Usa, registra una ricerca condotta da Uni-Club, un gruppo di studiosi di varie università italiane, la rilocalizzazione interessa l’Italia.
Quasi due terzi dei rimpatri delle aziende europee riguarda infatti, dice il database di Uni-Club, imprese italiane: 68, la metà delle aziende americane, nonostante un sistema industriale assai più piccolo. Il picco c’è stato nel 2009, con 14 ritorni in Italia. Da dove tornano? Anche per l’Italia, il paese a cui più frequentemente le aziende hanno voltato le spalle è la Cina: 26 casi, a cui si aggiungono gli 11 di altri paesi asiatici, come il Vietnam. Ma c’è anche un riflusso dall’Europa: 18 aziende hanno rinunciato ad impianti nell’Europa orientale, 11 in quella occidentale. Come prevedibile, il settore più rappresentato è anche quello che per primo, e con più crudezza, aveva sentito il morso della concorrenza internazionale e della globalizzazione: tessile, abbigliamento e calzature raccolgono quasi metà delle 68 aziende rimpatriate. Anche settori contigui – tradizionali punti forti dell’export italiano fino a qualche anno fa – come mobilio ed elettrodomestici sono presenti in misura significativa. Ma ci sono anche 10 aziende meccaniche e 5 aziende elettroniche. Nel caso tedesco, il terzo per importanza (i rimpatri sono 42, contro i 68 italiani) meccanica ed elettronica hanno la quota preponderante. Per le industrie tedesche, tuttavia, l’area abbandonata è due volte più spesso l’Europa (a Est come a Ovest), rispetto alla Cina.
Cosa c’è dietro il backshoring? E’ finita la cuccagna della manodopera cinese pronta a lavorare per un tozzo di pane? A sorpresa, nelle spiegazioni che danno le aziende italiane della loro decisione, il ridursi del divario nel costo del lavoro viene citato come decisivo solo nel 13 per cento dei casi. A spingere le direzioni aziendali a tornare su una decisione costosa e complicata come delocalizzare la produzione è, soprattutto, una questione che potremmo chiamare di “branding”. E non stupisce che interessi soprattutto le imprese dell’abbigliamento e delle calzature. Le aziende hanno, infatti, scoperto, che il marchio “made in Italy” paga. Il motivo più citato (42 per cento) dalle imprese che sono tornate, per spiegare la decisione, è proprio l’effetto-qualità che i clienti associano alle produzioni realizzate nel nostro paese. E si collega direttamente alla seconda ragione più spesso indicata: la bassa qualità effettivamente ottenibile nelle produzioni delocalizzate. I manager delle aziende hanno anche indicato uno degli intoppi prevedibili della delocalizzazione: la difficoltà di modulare la produzione sulle richieste del cliente, oggi cruciale nel modello moderno di esportazione, tarato sulle necessità e le indicazioni del destinatario della merce.
Anche senza voler dare valore risolutivo alle risposte di un numero limitato di aziende, la classifica delle motivazione di una scelta certamente difficile e, quasi sempre, epocale per un’impresa, come il luogo in cui collocare la produzione, fornisce indicazioni istruttive sui punti chiave della strategie industriali con cui far fronte alla crisi. Né costo del lavoro, né flessibilità della manodopera – certamente più vantaggiosi nei paesi di emigrazione – sembrano i parametri decisivi. Piuttosto, qualità, brand e flessibilità nel rispondere alle esigenze del cliente.