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Home - Approfondimenti - La nota - Siamo più della metà, ma discriminate il doppio: il Rendiconto di Genere 2024 dell’Inps illustra le infinite “differenze” che puniscono le donne italiane

Siamo più della metà, ma discriminate il doppio: il Rendiconto di Genere 2024 dell’Inps illustra le infinite “differenze” che puniscono le donne italiane

di Nunzia Penelope
24 Febbraio 2025
in La nota
Siamo più della metà, ma discriminate il doppio: il Rendiconto di Genere 2024 dell’Inps illustra le infinite “differenze” che puniscono le donne italiane

Si cantava negli anni Settanta: “siamo tante, siam più della metà. Lo siamo ancora: nella popolazione italiana, il 51,1 è rappresentato da donne, contro il 48,9% di uomini. E però, dagli anni Settanta, non solo non abbiamo fatto passi avanti, ma probabilmente ne abbiamo fatti parecchi indietro. Almeno cosi si direbbe, a leggere il Rendiconto di Genere 2024, presentato oggi dal Civ dell’Inps: in Italia le donne vivono ancora una condizione di grave svantaggio da ogni punto di vista. Lavoro, retribuzioni, pensioni, istruzione, sostegno alla famiglia, violenza di genere, eccetera.

Tutti dati contenuti nel Rendiconto 2024 segnalano una situazione di inspiegabile svantaggio della componente femminile del paese, che pure ammonta a 30 milioni 138 mila 708 persone, contro i 28 milioni 851 mila maschi: quasi un milione 300 mila in più, ma evidentemente non contano nulla, a giudicare dalla lunga serie di situazioni che risultano “punitive” per le donne elencate dal rapporto.  A cominciare dal tasso di occupazione, che nelle donne è bassissimo, appena di poco superiore alla metà, ovvero il 52,5%, quasi 18 punti di differenza rispetto a quello degli uomini, che è al 70,4%. Anche guardando al boom di assunzioni di questi ultimi anni, le donne restano nelle retrovie: solo il 42,3% del totale dei nuovi lavoratori le riguarda, e solo il 18% con contratti a tempo indeterminato, contro il 22,6 dei maschi che possono contare su un contratto stabile. E ancora, sono ovviamente le donne le “reginette” del part time, con oltre due terzi dei contratti di questo tipo, di cui il 15,6% contro la loro volontà (i maschi solo nel 5% dei casi). Nemmeno a dirlo, questo si riflette anche sulla retribuzione: le buste paga delle donne pesano ben il 20% in meno di quelle degli uomini, con picchi del 32% nelle attività finanziarie e del 23,7% nel commercio, scendendo al 16% solo nei servizi di alloggio e ristorazione. E altrettanto inutile dirlo, solo il 21,1% dei dirigenti è donna, e solo il 34,4% tra i quadri.

Eppure, considerando i livelli di istruzione e preparazione, le donne dovrebbero essere a capo del mondo, e pure coperte d’oro: visto che sono la maggioranza non solo tra chi dispone di un diploma di scuola superiore (il 52,6% dei diplomati) ma stravincono tra i laureati, dove costituiscono addirittura il 60% del totale. E però, questo non si traduce praticamente mai in un maggiore riconoscimento, né in termini di carriera né, come abbiamo visto, di retribuzione. E forse bisognerebbe iniziare a rovesciare la questione: chiedersi come sia possibile che in questo paese (ma non solo nel nostro) gli uomini, pur essendo più ignoranti e meno preparati delle donne, riescano a salire di più e guadagnare meglio. Per quali misteriose ragioni, per quali vie, se non una pura e semplice discriminazione di genere, considerando che le donne studiano di più, si laureano più rapidamente e con migliori voti?

Potremmo aggiungere che, malgrado tutte le difficoltà che devono affrontare, le ragazze tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora con la famiglia sono meno dei ragazzi della stessa età (meno di tre milioni contro oltre tre milioni e mezzo): a riprova, dunque, di una tendenza all’autonomia che i maschi evidentemente non hanno saputo conquistarsi. E ancora, tra le famiglie monogenitoriali sono oltre 2 milioni e mezzo quelle dove l’unico genitore è donna, appena 500 mila quelle con unico genitore maschio. E infine, sono single quasi 5 milioni di donne, contro poco più di 4 milioni di maschi. Altre differenze? Prendiamo il congedo parentale, di cui tanto si parla (si parla, appunto: non altro). Nel 2023, le giornate di congedo parentale utilizzate dalle donne sono state 14,4 milioni, contro appena 2,1 milioni degli uomini. Nel frattempo, gli asili nido restano una sorta di chimera, con solo tre regioni 8l’Umbria, l’Emilia Romagna e la Valle d’Aosta) che raggiungono, o quanto meno si avvicinano, all’obiettivo dei 45 posti nido ogni 100 bambini tra 0 e 2 anni. Poi non è che ci possiamo stupire se il saldo tra, diciamo, “culle” e “bare”, resta negativo per le prime e a favore delle seconde, con 671 mila morti contro appena 379.890 nati. E a questo proposito: facciamo meno figli, ma campiamo sempre di più, con una aspettativa di vita che ha ripreso a crescere dopo gli anni del Covid toccando nel 2023 85,2 anni (era 84,8 solo dodici mesi prima). Soprattutto, campiamo più dei maschi, che lasciano questa valle di lacrime quasi 5 anni prima delle donne, cioè a 81. (Il grafico con gli indici di longevità è stupefacente, praticamente inverso rispetto a quelli sul lavoro, denaro, eccetera).

Dunque ricapitolando: più numerose, più intelligenti, più indipendenti, più longeve, più mobili. Eppure, ancora vittime, da ogni punto di vista: il dossier Inps ci dice infatti che le denunce per violenza di genere sono aumentate, e davvero è un altro dato folle. Folle, mi permetto di osservare, lo è anche ridurre le risorse destinate al sostegno delle vittime: il Reddito di libertà erogato dall’INPS alle donne che hanno subito violenza in ambito familiare, spiega il Resoconto, nel 2021 ha coinvolto 2.418 donne, mentre negli anni successivi, per mancanza di risorse, sono stati confermati i trattamenti solo nelle regioni Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia (circa 233 in tutto nel 2023), e solo grazie a risorse regionali.

Ancora: le donne pensionate sono di più, 7.9 milioni contro 7,3 milioni di uomini, ma hanno assegni previdenziali inferiori: nel lavoro privato gli importi medi delle pensioni di anzianità/anticipate e di invalidità per le donne sono rispettivamente del 25,5% e del 32% inferiori rispetto a quelli degli uomini, mentre nel caso delle pensioni di vecchiaia il divario raggiunge addirittura il 44,1%. Un riflesso diretto degli svantaggi sul mercato del lavoro. Oltretutto, le donne prevalgono numericamente nelle prestazioni pensionistiche di vecchiaia e ai superstiti, mentre il numero limitato delle donne che beneficiano della pensione di anzianità o comunque anticipata è solo del 27% fra i lavoratori dipendenti privati e il 25,5% fra gli autonomi, altra riprova della difficoltà delle donne a raggiungere gli alti requisiti contributivi previsti, a causa della discontinuità che caratterizza il loro percorso lavorativo.

Interessante, infine, anche l’analisi dei dati sull’immigrazione e l’emigrazione: negli ultimi dieci anni, si legge nel dossier Inps, “a fronte di un incremento complessivo dei flussi di immigrazione annua del 9.6%, risulta una crescita degli immigrati maschi del 27% e una riduzione del 5% delle immigrate. Al contrario, l’emigrazione femminile, cioè dall’Italia verso l’estero, aumenta quasi il doppio di quella maschile, 40% rispetto al 24%”. In sintesi: in Italia arrivano meno donne da altri paesi e in compenso sempre più donne italiane se ne vanno a vivere altrove. Chissà perché.

Nunzia Penelope

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Vicedirettrice de Il Diario del lavoro

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