Una volta il Fondo monetario internazionale faceva paura. I viaggi in Italia dei messi di Washington venivano seguiti con apprensione, nel timore che ne scaturissero ricette di politica economica lacrime e sangue. Oggi, è vero il contrario. La vera antitesi al mantra dell’austerità, che promana da Berlino e Bruxelles, è, almeno sul piano della teoria economica, a Washington, lato Fmi, dove il capoeconomista Olivier Blanchard ha promosso, in questi anni, una riflessione a tutto campo che smantella le ricette dell’austerità in salsa tedesca. Di fatto, Blanchard lascerà nei prossimi mesi il suo posto, dopo aver sistematicamente rovesciato i pilastri della politica economica adottata, in Europa, in questi anni.
Il primo attacco è stato, fin dal 2012, ai meccanismi stessi dell’austerità. In pratica, diceva Blanchard, sono stati utilizzati (ad esempio con la Grecia) modelli econometrici che, sistematicamente, sottovalutavano gli effetti di tagli e rincari sulla crescita economica e, dunque, sul rapporto debito/Pil che era l’obiettivo centrale della manovra. Gli economisti del Fmi mettevano nel mirino un altro dogma: non è vero che è meglio, per risanare il bilancio, puntare sui tagli alla spesa pubblica, piuttosto che sul rincaro delle tasse. Ridurre la spesa pubblica ha conseguenze più negative sulla crescita. Non è finita: l’ultimo studio del Fmi, poche settimane fa, rilancia l’efficacia della spesa pubblica per investimenti. Con quella che pare una provocazione diretta all’ortodossia coltivata a Berlino. Per finanziare investimenti in infrastrutture, dice lo studio, ci si può serenamente indebitare. Anzi, debiti pubblici per investimenti hanno effetti sulla crescita maggiori di investimenti finanziati tagliando la spesa pubblica e riducono più rapidamente il rapporto debito/Pil.
Nella riflessione promossa da Blanchard c’è anche una nuova attenzione sociale. Ai temi dell’ineguaglianza, della flessibilità del lavoro, del ruolo del sindacato, in una chiave sostanzialmente controcorrente. Gli studi pubblicati negli ultimi due anni prendono di mira, infatti, gli effetti sociali dell’austerità. Il consolidamento fiscale, avverte un rapporto del 2013, “è tipicamente associato con un aumento della povertà”. In altri termini, l’austerità allarga la forbice sociale dell’ineguaglianza. Detto in termini più spicci: favorisce i ricchi. A forza di tagli al welfare, sgravi fiscali, flessibilità del lavoro, l’ineguaglianza sociale aumenta fra lo 0,4 e il 3,4 per cento. E più ineguaglianza significa meno crescita economica. Intanto, la disoccupazione di lunga durata cresce di mezzo punto. Il conto dell’austerità lo pagano anzitutto i salari che, mediamente, subiscono una perdita duratura valutabile in quasi un punto di prodotto interno lordo.
Gli economisti del Fmi sembrano poco convinti anche dell’efficacia della cosiddetta flessibilità del lavoro. La libertà di licenziare, nota l’ultimo World Economic Outlook, quello dello scorso aprile, o, comunque, più in generale, la deregolamentazione del mercato del lavoro non sembra avere effetti significativi sul parametro chiave della produttività. Ma il Fmi ha qualcosa da dire anche sulle politiche salariali e il ruolo del sindacato. Il tema è particolarmente caldo perché, almeno negli Usa, si comincia a sostenere che la attuale compressione salariale impedisce una vigorosa ripresa della domanda di consumi e, dunque, ostacola la crescita. I ricercatori del Fmi individuano nel declino del sindacato e nella perdita di potere contrattuale dei lavoratori una delle cause di questa paralisi. La tesi degli economisti neoliberali, secondo i quali un sindacato forte, fissando i salari al di sopra del livello di equilibrio, favorirebbe la disoccupazione non è, dicono al Fmi, supportata dai fatti. Dall’analisi di 17 diversi paesi, solo in 3 casi è emersa un’associazione fra forte potere contrattuale dei lavoratori e disoccupazione generale più alta. In più, dove il tasso di sindacalizzazione è più basso, fra il 1980 e il 2010 più sono aumentati i redditi del 10 per cento più ricco della popolazione, anche considerando i prelievi fiscali. Fra potere del sindacato e arricchimento dei ricchi, statisticamente, dice lo studio, il rapporto è diretto: il 10 per cento più ricco della popolazione, in questi anni, ha aumentato mediamente la propria quota del reddito nazionale di cinque punti percentuali, uno slittamento massiccio (oggi, secondo l’Ocse guadagnano dieci volte di più del 10 per cento più povero, contro le sette volte degli anni ’80). Metà di questo slittamento, dice lo studio, si può spiegare con il declino del sindacato.
Maurizio Ricci