di Patrizio Di Nicola
La flessibilità del lavoro è poca e, come sostiene il governo, per creare occupazione va liberalizzato il mercato del lavoro, o è troppa e poco regolamentata ed ha generato un sistema iper-precario dove ai giovani vengono offerti soltanto lavori saltuari e sotto-retribuiti? Il nostro volume Storie precarie: parole, vissuti e diritti negati della generazione senza, scritto a più mani con Francesca della Ratta-Rinaldi, Ludovica Ioppolo e Simona Rosati, pubblicato da poco dall’editore Ediesse con la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Aris Accornero, intende andare al di là della mera “questione numerica” e affronta invece, attraverso la raccolta e l’analisi di quasi 500 storie di lavoratori e lavoratrici atipici, lo stato d’animo, le speranze e le richieste di una generazione di giovani e non più giovani con cui l’Italia ha barato. I precari da noi intervistati richiamano ben poco l’immagine dell’adulto «bamboccione», che preferisce continuare a vivere con i genitori per un mix di convenienze e opportunità, rimandando volutamente l’assunzione delle responsabilità che derivano dall’ingresso nell’età adulta. Nel nostro campione al contrario gli intervistati che vivono nella famiglia di origine sono appena uno su cinque, anche se con un lavoro precario crearsi una esistenza stabile è spesso un’operazione complicata. Ciò in quanto il precariato non è un periodo transitorio di esperienze posizionate all’inizio della vita professionale delle persone: il 60% di chi ci ha risposto svolge lavori saltuari da oltre 6 anni e uno su tre ha «spento la candelina» dei 10 anni di precarietà. La discontinuità e frammentarietà delle esperienze di lavoro incide fortemente sulle identità lavorative dei soggetti, che nonostante abbiano spesso una robusta preparazione specifica, soffrono una forte sensazione di deprivazione professionale e sociale. Questo innesca una spirale che ostacola l’accumulazione di esperienze professionali trasferibili da un datore di lavoro all’altro e che ostacola sia la costruzione di una carriera tra i lavori sia, come ha denunciato recentemente il governatore della Banca d’Italia Visco, ostacola l’aumento della produttività delle imprese.
Il lavoro precario, per i nostri intervistati, è un’esperienza estremamente negativa, tanto che essi si raccontano come una «generazione NON». Avere un lavoro incerto, specialmente se questo si estende su più anni senza diventare lavoro stabile, rende particolarmente sensibili verso i diritti che mancano: un intervistato su tre sottolinea che non ha le ferie o la maternità, e non sa se al termine di un contratto riuscirà ad avere un rinnovo e di che durata. Vi è rabbia e frustrazione per le cose che «non ci si può permettere» a causa dell’incertezza economica: anzitutto una famiglia e un figlio, ma anche la casa di proprietà, l’automobile, la vacanza. La precarietà rende le persone ricattabili dai datori di lavoro, ai quali bisogna dire sempre di sì, anche quando le richieste sono inaccettabili, come nel caso di tante donne che raccontano di aver dovuto rimandare sine die la gravidanza. Fare parte della «generazione senza» significa infatti non potersi permettere progetti di vita, non avere diritti che ormai si davano per scontati, in una parola vuol dire vivere ai margini del mercato del lavoro vedendosi negata una parte importante della propria identità stando peggio dei propri genitori pur avendo studiato di più.
I lavoratori intervistati sono coscienti delle difficoltà delle aziende, per cui non cercano strenuamente il «posto fisso» ma invocano un sistema di tutele equo che permetta alle persone di cambiare lavoro senza traumi e paure, mantenendo la propria dignità. E sanno bene che per uscire dalla precarietà bisogna soprattutto investire in sviluppo e crescita economica, in formazione e valorizzazione delle competenze. Sanno anche che per cambiare questa situazione non basterà una nuova legge: bisogna invece ripensare la cittadinanza sociale e il welfare, in modo che sia garantito ai lavoratori la possibilità di immaginarsi un futuro, a prescindere dal contratto che hanno stipulato.