di Aris Accornero, Professore emerito di Sociologia industriale all’Università di Roma – La Sapienza
1. Per l’Italia, lo “sviluppo locale” non è una scelta di scuola ma un’esperienza che ha in quarto di secolo. Dei tre modelli di sviluppo economico e di mobilitazione del lavoro emersi nel secondo dopoguerra – quello metropolitano perseguito nel “triangolo industriale”, quello polarizzato tentato al Sud e quello diffusivo emerso nella “terza Italia” – soltanto questo è risultato vincente, tant’è che ai primi segni di crisi del fordismo, delle grandi dimensioni e delle economie di scala ha consentito la ripresa dell’industrializzazione italiana.
L’impulso dato dalla ‘mobilitazione volontaristica’ è stato essenzialmente endogeno, tant’è che nessuna politica industriale lo aveva disegnato, né l’hanno aiutato le politiche di incentivazione all’industria e di promozione delle aree depresse. Facendo leva su una mano d’opera socializzata al lavoro, aperta alla tecnologia e confidente nell’intrapresa, la cooperazione fra vari soggetti dello “sviluppo locale”, innanzitutto imprenditoriali, ha trasformato vaste aree poco sviluppate, mostrandosi adatta a suscitare le energie della comunità (basti citare la partecipazione delle donne al lavoro, che ricorda la prima industrializzazione di vallata).
Nel valutare a mente fredda le performance del capitalismo italiano, non è possibile disconoscere il contributo che il modello diffusivo ha dato alla crescita del Paese: basta considerare il rapporto fra creazione e distruzione dei posti di lavoro delle imprese maggiori e minori, la quota di esportazioni dovuta ai sistemi distrettuali e a quelli metropolitani, o la capacità di reazione alle oscillazioni di mercato mostrata dal made in Italy. Ciò bilancia in parte i limiti del modello, a cominciare dalla dimensione delle imprese, cui vanno imputate le minori spese per ricerca e sviluppo.
2. E’ significativo che il tema dello “sviluppo locale” sia entrato anche nel dibattito sul sistema contrattuale delineato nel Protocollo del 23 luglio 1993. Le divisioni emerse nel mondo sindacale, al momento maggiori di quelle interne al mondo imprenditoriale, rendono ardua qualsiasi previsione sugli esiti, e perfino sui tempi. Tenendo conto che la verifica quinquennale prevista dal Protocollo stesso diede luogo nel 1998 a una mera riconferma del sistema, non si può neppure escludere che l’eventuale revisione possa essere ulteriormente procrastinata; una nuova riconferma, invece, sembra del tutto improbabile.
Il Protocollo, essenzialmente modellato sull’industria, prevede un contratto nazionale di categoria con contenuti normativi rinnovati ogni quattro anni, e con livelli retributivi negoziati ogni due anni con riferimento diretto alla dinamica dell’inflazione programmata e indiretto alla produttività del settore. E’ inoltre previsto un secondo livello di contrattazione, aziendale oppure territoriale, su materie e istituti “diversi e non ripetitivi” rispetto a quello nazionale; esso viene negoziato ogni quattro anni ed è esplicitamente correlato ai risultati ottenuti. Il riconoscimento formale di una contrattazione decentrata o “integrativa” (che era assai diffusa ma in modo informale) è stata una grande novità, che tuttavia ha lasciato insoddisfatti sia i lavoratori che gli imprenditori. Fuori dall’ambito di quattro settori produttivi la contrattazione di secondo livello è prevista esclusivamente a livello territoriale: per provincia, come nell’agricoltura, in edilizia e nel commercio; o per regione, com’è stato recentemente concordato per l’artigianato. Nella pubblica amministrazione il decentramento contrattuale rinvia alle strutture gerarchiche o periferiche.
Ci si chiede oggi se e come rivedere la struttura della negoziazione in modo da renderla meno centralizzata, o più articolata, rispetto a quella concordata – o meglio, “concertata” – fra Governo, sindacati e imprenditori. Le questioni in gioco nel dibattito sull’articolazione del sistema contrattuale si possono affrontare da due punti di vista: il primo guarda alle necessità emerse dal bilancio degli 11 anni di Protocollo, il secondo alle prospettive offerte dall’esperienza dello “sviluppo locale”.
3. Cominciamo da un bilancio del Protocollo. Il problema della contrattazione nazionale non è oggi quello cruciale, sebbene sotto la presidenza D’Amato la Confindustria pareva volesse sopprimere i contratti nazionali di categoria per sostituirli con contratti di azienda. Data la frammentazione del sistema produttivo italiano (95 imprese su 100 hanno meno di 10 addetti), quello era un obiettivo assurdo, che infatti divideva e divide il padronato stesso. Oggi le parti sembrano concordare sull’opportunità di mantenere il contratto nazionale come base del sistema, ma riducendo il numero dei settori per i quali esso viene sottoscritto e allungando la cadenza temporale dei rinnovi. Ciò assicura tutele normative e trattamenti economici uniformi per ciascuna categoria su tutto il territorio, senza peraltro impedire che una parte della paga sia fuori della busta o manchi dalla busta.
L’adeguamento deIle condizioni e delle remunerazioni alla produttività aziendale o territoriale (singole unità produttive, oppure gruppi di imprese) spetterebbe alla contrattazione decentrata. Ed è questa che pone i problemi maggiori, dividendo la Cgil dalla Cisl e dalla Uil. Innanzitutto la contrattazione decentrata si è svolta principalmente a livello di azienda e quasi mai a livello di territorio, per cui la copertura assicurata ai lavoratori non è riuscita ad andare oltre un terzo circa delle aziende interessate, quasi sempre di dimensione media se non grande. Inoltre la parte “mobile” della retribuzione, cioè quella legata alle performance, non è stata tale da premiare in modo sostanzioso la produttività: lambiccati e pretenziosi “premi di risultato” non hanno quasi mai partorito maggiorazioni salariali superiori al 3-5% della remunerazione (talvolta concordata a forfait). Infine, in varie aziende le cadenze rispettivamente previste per il biennio salariale e per il quadriennio decentrato hanno comportato una sovrapposizione di vertenze (ma anche di materie), e un sovraccarico dei costi.
In questi anni la diffusione della contrattazione decentrata ha chiaramente toccato un plafond tale per cui la distribuzione fra parte “fissa” e parte “mobile” della retribuzione premia assai poco o non premia quasi le situazioni aziendali e locali più dinamiche. (Né sarebbe accettabile che una maggiore dinamica venisse ottenuta al ribasso, mediante minimi salariali fissati per legge come in Francia e negli Stati Uniti, anziché sottoscritti per contratto come nella tradizione italiana. Del resto, una siffatta idea non è emersa nei dibattiti di questi anni.) Per superare questo limite del sistema salariale italiano non è necessario che nei prossimi anni una maggior quota degli aumenti si sposti dal livello centrale al livello decentrato: è sufficiente che i sindacati riescano ad avviare contrattazioni “integrative” anche con una pluralità di soggetti imprenditoriali, e non soltanto con singoli imprenditori.
L’unico mezzo per estendere la platea dei lavoratori pienamente tutelati non è dunque la modifica del Protocollo bensì la sua piena applicazione. Il dispositivo del 1993 prevede già una scelta alla pari fra negoziazione territoriale e negoziazione aziendale, che ovviamente vengono poste in alternativa. (Visto che in Italia le piccole imprese sono ben più diffuse e più piccole di quelle degli altri Paesi, ciò attenua l’impressione che quel testo fosse “modellato su una struttura produttiva tedesca e non certo giapponese”.)
Raggiungere singolarmente un numero di piccole imprese tale da estendere apprezzabilmente la copertura della contrattazione decentrata è ben più difficile in Italia che negli altri Paesi industriali. Né sembra possibile puntare a intese con la maggiore delle imprese locali per poi tentare di allargare la copertura a tutte le altre: non è nelle nostre tradizioni. Quindi occorre estendere la contrattazione decentrata al di là delle singole imprese, dove l’esperienza e la dimensione suggeriscono di consolidare il negoziato aziendale. Per farlo, occorre quindi rivolgersi in loco a più imprese o a soggetti imprenditoriali rappresentativi di tutto il territorio. Dove? Dove l’esperienza lo possa consentire o anche soltanto suggerire. E questo, per lo meno in via analitica, ci porta alle esperienze di “sviluppo locale”.
4. Lo “sviluppo locale” ha modificato la geografia economico-sociale dell’Italia, articolandola e diversificandola. Molte aree, anche al di là dei “distretti industriali”, hanno potuto emergere perché lo sforzo produttivo messo in opera dalle forze sociali, e da altri soggetti privati e istituzionali, si è avvalso di una cooperazione negoziata o di patti informali che riguardavano non soltanto le condizioni di lavoro, i mercati del lavoro e la formazione dei lavoratori ma, talvolta, anche gli assetti abitativi, il funzionamento dei servizi, i flussi migratori, l’assistenza pubblica: in una parola il welfare locale. Ciò ha prodotto effetti spesso positivi sulle tensioni salariali, sul wage drift, sui “fuoribusta”, così come sulla puntualità, l’assiduità, la disponibilità dei lavoratori. Né sono mancate ricadute più generali sugli atteggiamenti rivendicativi, i livelli di conflittualità, le forme di flessibilità e la stessa partecipazione al lavoro. I sindacati sono stati fra i principali protagonisti di queste forme di regolazione territoriale, da cui è venuto un consenso che ha temperato gli effetti, spesso traumatici, della competizione di mercato e delle trasformazioni nell’area.
Al tipico modo di regolazione del modello diffusivo si sono aggiunte più di recente le esperienze di promozione e di gestione “concertata” dei processi attivati e realizzati in loco, esemplificate in particolare dai patti territoriali e dai contratti d’area riguardanti varie zone in via di sviluppo. Nonostante gli aspetti critici che vari studi hanno messo in luce, e pur considerando che l’intento di incentivare l’intrapresa locale ha dato luogo a vari casi di concession bargaining, non si possono sottovalutare i risultati che a medio termine sono venuti anche da queste iniziative.
5. Anche lo “sviluppo locale”, dunque, pone in parte le basi e in parte l’esigenza di un sistema contrattuale meno tradizionale e meno uniforme. A ben vedere, nel “sistema Italia” questa non sarebbe soltanto una risposta ai problemi ma anche una scelta di coerenza. Naturalmente, i profili della contrattazione decentrata non ricalcano le esperienze regolative dello “sviluppo locale”, né possono comprendere tutti i soggetti che lo gestiscono e lo rappresentano. C’è quanto meno la differenza che si ritrova nella coppia contrattazione-concertazione. Questo dev’essere chiaro.
D’altra parte, una contrattazione territoriale volta a remunerare il lavoro per la parte concernente i risultati dell’attività svolta in un’area produttiva omogenea non può essere avulsa da intese locali che regolino determinati aspetti e prospettive della situazione economico-sociale dei lavoratori e delle loro famiglie. Queste inerenze non possono sfuggire a nessuno dei soggetti interessati, anche perché le forze sociali stesse potrebbero volerne ricavare eventuali sinergie.
Oltretutto, una contrattazione territoriale che affianca quella aziendale in una rigorosa e reciproca auto-esclusione è una strada che evita sia le derive del federalismo, perché è negoziata fra le parti sociali, sia il rischio delle “gabbie salariali”, perché pone a proprio fondamento il contratto nazionale. Del resto, l’esperienza delle categorie che contrattano a livello territoriale non convalida il timore di una frantumazione perniciosa delle condizioni e dei trattamenti.
6. Quali sono infine gli atteggiamenti dei principali partner sociali in merito alla prospettiva che la contrattazione decentrata possa allargarsi alle previsioni del Protocollo e comprendere sia le singole imprese o i singoli gruppi, sia una parte o la totalità delle imprese di un territorio? Mentre Cisl e Uil l’appoggiano con convinzione per la possibilità di articolare i trattamenti e di farli meglio aderire alla realtà produttiva, la Cgil ne parla con cautela per il timore che possano in tal modo sfrangiarsi le condizioni assicurate dai contratti di categoria. Su questi atteggiamenti influisce ovviamente il contesto generale, fatto anche di importanti contratti difficili da rinnovare e di cauti approcci con la nuova leadership di Confindustria. Nella Cgil gioca anche una certa diffidenza verso il modello diffusivo. (Ad onor del vero, un po’ tutti i sindacati sembrano preferire un capitalismo tanto ottimale quanto vago, che peraltro non riesce ad esorcizzare del tutto quello metropolitano e quello polarizzato di buona memoria.)
Ma perché la Confindustria non sembra volersi impegnare nella contrattazione territoriale? Anzitutto per il timore che possa intrecciarsi con quella aziendale, e addirittura sommarvisi, eventualità che bisogna escludere a priori e impedire nei fatti. Agli industriali pesa poi anche la tassativa condizione di “esigibilità” posta dalla Cisl nello schierarsi con forza per la contrattazione territoriale. Di questa condizione si parlò già nel 1993, sebbene in altri termini, a proposito della contrattazione aziendale. Gino Giugni “interpretò” allora il Protocollo in modo salomonico, affermando che si contratta nelle aziende che intendono contrattare. “Né obblighi né preclusioni”, egli riassume oggi. Bisogna tenerne conto. Obbligare fin d’ora al negoziato un gruppo di imprenditori locali (quali?) è ancora più arduo che obbligare qualsiasi imprenditore singolo. Del resto è difficile che una condizione di “esigibilità” possa esentare l’attività vertenziale dai vincoli più generali che sovrastano le relazioni di lavoro.