Gawker Media è un’impresa di successo. Con oltre 100 giornalisti è uno dei nuovi colossi dell’informazione d’oltreoceano. Ed è il simbolo dell’azienda ultramoderna, nata sul web, fatta di software, agile, dinamica. Siamo alle nuove frontiere dell’economia del XXI secolo. Giovedì 4 giugno, poco dopo le 8 del mattino, Gawker ha annunciato che i risultati della votazione interna dei dipendenti: il 75 per cento aveva scelto di aderire al sindacato dei giornalisti. In un paese in cui il tasso di sindacalizzazione scende ininterrottamente dagli anni ’50 ed è oggi sotto il 10 per cento è il segnale di una svolta. La Grande Recessione ha cambiato una dinamica che sembrava immutabile.
La Gawker non è un segnale isolato. Anche in un bastione di pensiero economico moderato, come il Fondo monetario internazionale, hanno scoperto che i tassi di ineguaglianza della società americana, tornati ai livelli di inizio ‘900, sono legati anche alla sindacalizzazione: la crescita della quota di reddito del 10 per cento più ricco è quasi perfettamente simmetrica alla diminuzione della quota di iscritti al sindacato. Ma ci sono motivi più concreti della buona volontà. Molti economisti sono convinti, anche a Wall street, che l’economia americana, per il 70 per cento costituita da consumi, non potrà ripartire se non riparte il potere d’acquisto delle famiglie. E’ dal 1990 che la quota di reddito nazionale che va ai lavoratori è in discesa: il risultato è che, dieci anni fa, per sostenere l’economia, si è dovuta creare la bolla del debito, pagata poi con la Grande Recessione post-2008. Se ne sono accorte dirigenze non certo progressiste, come quelle di Wal-Mart e di McDonald’s che hanno varato aumenti salariali, ma, in generale, lo si vede nella diffusione delle campagne per aumentare il salario minimo, se non a livello federale, a livello statale.
In realtà, è fisiologico che, esaurita la crisi, rimpolpati i profitti, i benefici della migliore situazione economica si diffondano anche verso il basso, con aumenti di occupazione, incremento delle ore lavorate, maggiori tensioni sul mercato del lavoro e conseguente crescita dei salari. Perché, questa volta, a differenza degli altri cicli di recessione-ripresa, si torna a parlare di sindacato? Perché sembra cambiato un elemento cruciale nel lungo declino del sindacato americano: il giudizio e l’atteggiamento dei lavoratori verso la rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. Per decenni, dopo l’epoca d’oro chiusasi negli anni ’70, il sindacato e le rigidità che il sindacato introduce nella vita aziendale sono state viste come una palla al piede dalle aziende, ma anche dai lavoratori. Non è più così.
I sondaggi dicono che l’atteggiamento dei lavoratori americani verso i sindacati è, più o meno, un 50 a 50. Metà favorevole, metà contrari al sindacato, in quasi tutte le fasce di età. Più esattamente dai 30 anni in su. Perché per i Millennials, i ragazzi nati dopo il 1990, le idee sono chiare: meno del 30 per cento pensa che dal sindacato è meglio star lontani. Quasi il 60 per cento lo ritiene utile. In fondo, del resto, questo è lo sfondo anagrafico di un movimento come “Occupy Wall Street”. Il fattore è cruciale, perché, nel mercato del lavoro di un paese giovane, come gli Stati Uniti, sta avvenendo un cambio di generazioni. La generazione del dopoguerra, i baby boomers, è ineluttabilmente in discesa, ormai sotto i 45 milioni di lavoratori. Ma anche quelli della Generazione X, dagli anni ’60 in poi, sono ormai fermi, da molti anni, poco sopra i 50 milioni. Chi, ovviamente, aumenta vertiginosamente la propria presenza sul mercato del lavoro sono i ventenni, i Millennials. Nel primo trimestre del 2015 hanno superato, come numero, i loro genitori. Per il sindacato, un’occasione da non perdere.
Maurizio Ricci