Il Senato ha approvato pochi giorni fa, in via definitiva, il testo già approvato dalla Camera del disegno di legge delega in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva. Il diario del lavoro ha intervistato il giuslavorista Tiziano Treu per approfondire e comprendere i vari aspetti e le novità che contiene la norma. Per Treu la legge delega è molto aperta e solo nel prossimo futuro si vedrà in quale dimensione si collocherà, ma non mancano dei passaggi impegnativi e curiosi.
Treu, il Senato ha approvato il disegno di legge delega in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva. Un altro passo è stato dunque compiuto verso questa direzione
Tanto tuonò che piovve. È un tema in discussione da anni, sollecitato anche dalle direttive europee. Sembrava che il nostro Governo non intendesse fare granché in merito perché si diceva che eravamo in regola, dato che i nostri contratti coprono il 95% dei lavoratori e che quindi in realtà noi eravamo già in linea con la con la direttiva sul salario minimo. Invece è opportuno che si sia presa un’iniziativa in tal senso.
Una iniziativa nata dalle opposizioni e ora nelle mani della maggioranza
Si, è nata in questo modo un poco curioso, era una iniziativa di tutto un gruppo di senatori dell’opposizione che sono ancora in epigrafe nel testo, anche se un asterisco ci dice che hanno ritirato la sottoscrizione a questa proposta quanto è stata completamente cambiata dalla maggioranza per cui non è più attribuibile a quelle persone.
Il testo quindi non affronta più il tema del salario minimo, che cosa emerge di nuovo?
Affronta sostanzialmente tutto il problema della rappresentatività dei contratti collettivi. Perché la via contrattuale per arrivare a una retribuzione adeguata è sempre stata privilegiata nel nostro ordinamento ed è una delle strade previste anche dalla direttiva. Quindi qui non si parla di una legge su un salario minimo ma di un intervento sui contratti collettivi in modo che questi siano più efficaci per tutelare i lavoratori. In particolare l’indirizzo lo troviamo all’inizio del testo: “definire, per ciascuna categoria di lavoratori, i contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo dei contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati costituisca, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, la condizione economica minima da riconoscere ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria”. Quindi la via contrattuale alla retribuzione minima. Questo è l’obiettivo della legge.
Dopodiché aggiunge altre specificità, che pure sono nella linea europea, cioè che le società appaltatrici e subappaltatrici devono garantire, leggiamo nel testo: “dei trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati nel settore al quale si riferisce l’oggetto dell’appalto”. Successivamente la legge spiega come si fa. Direi in una forma particolare di estensione degli stessi contratti.
Perché particolare?
Noi sappiamo che adesso i contratti collettivi storici in Italia hanno natura privatistica quindi si applica solo alle parti le organizzazioni che li hanno sottoscritti. Qui invece si dice che appunto, proprio per garantire che ci siano trattamenti minimi veri e per tutti e garantiti come minimi e si prevede che i trattamenti economici complessivi minimi stabiliti come abbiamo detto sopra sono estesi anche a gruppi di lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva.
Quindi hanno previsto questa estensione nonostante abbiamo, come ha accettato prima, una contrattazione che comunque copre il 95% dei lavoratori?
Si, anche se la nostra contrattazione collettiva è molto diffusa è anche vero che in certi settori no, non è così. Pensiamo ai settori più deboli, come la Logistica, le Pulizie; qui si estendono i trattamenti economici minimi del contratto più vicino anche a quei lavoratori che non hanno un proprio contratto collettivo. Questa è il punto più importante.
La legge dice che si deve favorire lo sviluppo della contrattazione collettiva di secondo livello
Si, questo è un tema più a latere, tra l’altro qui se leggo una battutina che non è priva di significato, perché scrivono: “sviluppare la contrattazione di secondo livello” obiettivo da tempo condiviso, e poi “per far fronte alle esigenze diversificate del costo della vita su base territoriale” che è uno degli obiettivi che si persegue da tempo. Dopo di che si parla di come misurare la qualità dei contratti collettivi: “prevedere strumenti di misurazione che dicano” riferendosi ai vari codici dei vari contratti collettivi che vengono rilevati anche dall’Inps “il modo di misurare la qualità del contratto”, però qui non è molto chiaro sinceramente.
Ha notato delle criticità di questa legge delega?
Segnalo un punto critico in questo strumento. La legge delega considera, a differenza di come si è stato fatto finora anche negli accordi interconfederali come il famoso patto della fabbrica, non tanto il contratto che stipulato dalle associazioni maggiormente rappresentative ma si dice il contratto collettivo maggiormente applicato. Questo è il punto critico.
Perché considera critico la dicitura del maggiormente applicato?
In passato ne avevo parlato e discusso con le parti sociali a lungo quando presiedevo al Cnel. È critico perché il fatto che il contratto collettivo sia molto applicato non è una garanzia di per sé di qualità, anche riguardo alle retribuzioni, eccetera. Tant’è vero che i contratti molto applicati, come il multiservizi, oppure guardiania, custodia ed altri, sono stati criticati e ritenuti inadeguati addirittura dalla Cassazione.
L’indicazione che viene data in generale, anche dal patto della fabbrica, è che un contratto collettivo, per essere ritenuto di qualità adeguata, bisogna che sia stipulato dalle associazioni delle due parti maggiormente rappresentative. Poi ovviamente è utile anche la dicitura del maggiormente applicato ma non basta questa seconda formula da sola.
Cosa potrebbe succedere se rimanesse solamente la dicitura del “maggiormente applicato” non includendo la rappresentatività?
Pensando male ma indovinandoci, un contratto molto al “ribasso” magari potrebbe venire applicato entusiasticamente da molte imprese che vorrebbero, come dire, abbassare il costo del lavoro. Ma questo non è sufficiente a renderlo poi giusto. Quindi questo criterio della maggiore applicazione, da solo, non ci garantisce in sostanza che vengano fuori dei risultati di garanzia giusta.
Dovrebbe quindi essere affiancata una legge di sulla rappresentanza?
Beh sì, occorre che il contratto non solo sia applicato ma sia costruito da sindacati e parti datoriali maggiormente rappresentativi, punto su cui non ci siamo ancora. Su questo versante c’è sempre stata una qualche idea che basti quello che c’è. Esiste il patto della fabbrica, che aveva avviato un processo di accertamento basato su gli iscritti e sui votanti, tant’è vero che qualche categoria un poco più attrezzata come i meccanici, tramite l’INPS, hanno già l’idea chiara di quali sono i sindacati che hanno più iscritti. Un po’ più difficile è raccogliere i voti delle Rsu perché sono dispersi sul territorio. Però insomma l’idea era vedere, sulla base di dati concreti iscritti e votanti e se sindacati e datori sono veramente rappresentativi. Si è discusso moltissimo, ci sono stati progetti di legge ma non si è mai arrivati a una quadra. Quindi questo è un argomento ancora incerto e ripeto, basarsi solo sul numero delle aziende che accettano e applicano questi contratti non è una garanzia che siano contratti giusti. È questo è il punto più discutibile.
Le vorrei chiedere dei chiarimenti sulla parte che regola l’intervento del governo quando ci si trova di fronte a un ritardo nei rinnovi contrattuali
È una norma che, in sostanza, prevede che se le parti sociali sono in ritardo sui rinnovi contrattuali il Ministero gli tira le orecchie. In particolare si sollecita che siano fatti interventi per garantire i trattamenti minimi, anche se non viene rinnovato tutto il contratto per la parte normativa.
Però prevede una bella tirata d’orecchie, nel senso che dato che spesso non vengono rinnovati in tempi congrui, la norma prevede che il Governo abbia il potere di intervenire direttamente.
È sempre stato così. In passato, quando le parti facevano difficoltà, mi ricordo che il ministero li chiamava e cercava di fare una mediazione, non ha un vero e proprio potere impositivo. Però, ecco, vedo adesso che effettivamente a rileggere bene, a un certo punto sembra quasi dire un po’ di più quando sembri: “prevedere l’intervento diretto del Ministero con l’adozione delle misure necessarie”.
Esatto, anche a me ha lasciato un poco perplesso questo passaggio.
Si, guardi qui non si capisce bene che cosa significhi. Bisognerà vedere. Non credo sia possibile che il ministro possa dettare lui legge e stabilire un minimo se le parti sociali sono in ritardo con il rinnovo, almeno non penso che si possa leggere in questo modo.
Però non sarebbe il ministro a decidere autonomamente ma si affiderebbe a dei criteri già stabiliti dalla legge
Si certo, guarderebbe al minimo retributivo. Guardi riflettendo adesso le faccio un’aggiunta giuridica. Dalla legge si evince come sia possibile anche l’estensione dei minimi retributivi nei settori dove non c’è contratto, prendendolo da contratti vicini. Quindi è interpretabile come una specie di erga omnes specifica della parte retributiva.
Questo passaggio normativo non è stato ritenuto in contrasto con l’articolo 39 della Costituzione?
No, perché prevede una procedura diversa per la erga omnes. La Corte costituzionale ha detto: questa norma non è un’estensione della omnes di tutto il contratto collettivo, che sarebbe contrario all’articolo 39, bensì è un’estensione, della parte “retributiva” sulla base dell’articolo 36 della Costituzione che viene ricordato anche qui. Ecco spiegato perché la Corte costituzionale l’ha lasciato passare. Quindi per la parte retributiva si può procedere in una specie di erga omnes, cioè un’estensione dei contratti oltre l’area di applicata a categorie vicine. Fin qui va bene. Però dire che lo può fare direttamente l’intervento del ministro è una formula, adesso che la rileggo bene, sicuramente nuova e sarà in futuro da vedere come viene applicata.
Poi io dico un’altra cosa che non si dice spesso. Siccome i contratti collettivi sono contratti privati, un’azienda può sottoscrivere il contratto dei meccanici oppure dei chimici e dopo qualche tempo se è in difficoltà può non lo applicarlo più. Sia chiaro, se l’azienda esce dal contratto non succede niente. Al limite la sua associazione potrà fargli un richiamo, però non esiste un vero e proprio strumento erga omnes. Invece, in questa legge delega, la novità è che l’erga omnes ci sarebbe. Quindi questo passaggio normativo è importante perché interviene non solo nei settori che non hanno contratti ma anche nei settori dove i contratti vengono molto disattesi.
E sono molti questi settori con contratti disattesi?
C’è una serie di indagini della Banca d’Italia, che in passato ho citato anche in alcuni miei articoli, dove si vede come in alcuni settori, come Logistica, Pulizie, oppure qualche servizio di bassa qualità, il tasso di erosione dei contratti, cioè della non applicazione, è molto alto: arriva al 20-30%. Quindi anche qui qualcuno potrebbe dire: ma scusate, è vero che il contratto esiste, però diamogli un po’ di forza. Perché così come è adesso la giurisprudenza, i datori di lavoro possono anche non applicare il contratto e non succede niente, proprio perché sono contratti privati. Si, questa formula che contiene la legge è molto curiosa.
Anche i settori nuovi o di nicchia si potrebbero trovare improvvisamente regolati, a livello di trattamento economico minimo, dai contratti a loro più vicini.
Certo, ma questo meccanismo potrebbe instaurarsi anche in settori convenzionali dove però risulta difficile fare i contratti. Su questa lettera G ho qualche dubbio che, insomma, sia legittima. Perché prevede l’intervento diretto del singolo Ministero, però vedremo, è una formula molto impegnativa.
In ultimo volevo soffermarmi sulla lettera d prevista dalla legge delega, in particolare quando si specifica nella regolamentazione della contrattazione di secondo livello di tenere conto del costo della vita su base territoriale. Sembra rievocare le gabbie salariali. Si potrebbe tornare a un sistema del genere?
È stato un sistema superato come sappiamo da trent’anni. Si potrebbe dire che non siano proprio le gabbie salariali. Parla della contrattazione di secondo livello, senza specificare se sia aziendale, quindi potrebbe anche essere anche contrattazione territoriale oppure provinciali come nel settore agricolo oppure edile. Le parti potrebbero dire che si opera in questo modo: si fanno dei contratti di secondo livello provinciali legati al costo della vita. A Vibo Valentia x e a Milano due x. Quindi si, è possibile arrivare a un sistema del genere. Anche perché già adesso la contrattazione aziendale, con il meccanismo dei premi, differenzia; ma non differenzia sulla base del costo della vita e su base territoriale ma su base la produttività aziendale eccetera. Questo articolo della legge delega invece si dice che nella contrattazione di secondo livello, ergo anche territoriale, è diversificata in base alle esigenze del costo della vita. Anche questa formula è una novità. Non esiste un impedimento particolare per questo meccanismo, in fondo ci sono altri Paesi che hanno forme di differenziazione territoriale del costo del lavoro.
I sindacati confederali ancora non si sono espressi su questo punto.
Sono molto curioso di sapere che cosa diranno. Sicuramente la Cgil dirà che non è d’accordo, può darsi che invece la Cisl dirà che e che sia giusto perché il costo della vita è molto diverso a seconda del territorio e quindi è giusto tenerne conto.
Non è forte il titolo di questa legge, perché si delega al governo questa materia sulle retribuzioni?
È tutto da vedere, dipende come vengono attuati i decreti delegati. Questa è una norma molto aperta.
Emanuele Ghiani



























