Beppe Sala e smart working. Storia di un amore mai nato quello tra il primo cittadino di Milano e il lavoro agile. Uno scetticismo che lascia perplessi, visto che arriva dal cuore di quelle che dovrebbe essere la capitale italiana dell’innovazione e la città che, più di ogni altra, guarda al futuro. Oggi, sulle colonne del Corriere della sera, il sindaco del capoluogo lombardo ha nuovamente esposto i suoi dubbi su questa nuova forma di lavoro, imposta, con forza, dalla pandemia. Lo aveva già fatto, qualche giorno fa, sui social, sottolineando la necessità di abbandonare lo smart working e tornare al lavoro, sollevando un coro di critiche da chi si è sentito dare del nullafacente. Come se il lavoro da casa fosse una sorta di vacanza remunerata, e la performance potesse essere valutata tramite la presenza sul luogo di lavoro.
Nel suo intervento odierno, Sala parla di tematiche, connesse al lavoro agile, che meritano tutte di essere affrontate. Servono regole chiare, per un qualcosa di marginale in Italia prima del lockdown, regole che la contrattazione, con il supporto della legge, deve mettere a punto. Occorre ripensare l’intera organizzazione del lavoro, della valutazione della performance, così come l’impianto stesso dei contratti di lavoro. C’è poi la questione relativa all’impatto e agli effetti collaterali dello smart working sul tessuto urbano.
Il sindaco di Milano ha lanciato l’allarme sui possibili esiti negativi che uno smart working potrebbe avere su alcune realtà, come bar e ristoranti. Anche Confesercenti, come si legge nell’edizione torinese di Repubblica, ha lanciato una petizione alla sindaca Appendino e al governatore Cirio, per far tornare, fisicamente, i lavoratori, pubblici e privati, e aiutare tutte quelle attività che, senza la pausa pranzo, hanno perso il 30% degli incassi.
Il virus dovrebbe averci insegnato che nessuno si salva da solo, e che per un vero rilancio del paese è necessario uno sforzo e una visione collettiva. Dunque una logica che si muove per filiere o classi lavorative non dovrebbe portarci molto lontano. Ma, tuttavia, dobbiamo anche chiederci se il modello, sociale e lavorativo, pre pandemia, sia ancora affettivamente sostenibile. Forse lo smart working, più che essere la causa di alcuni risvolti negativi, ha semplicemente sollevato il velo su problemi già preesistenti, che prima non vedevamo o non volevamo vedere.
Lo sviluppo, all’interno delle città, di intere aree economiche che vivono esclusivamente o prevalentemente con l’apporto dei lavoratori, che si recano quotidianamente in ufficio, cela, forse, una visione malsana e poco lungimirante. Le città fantasma, alle quali guarda con rammarico il sindaco Sala, forse non sono da imputare unicamente al lavoro agile, ma, semmai, alla nascita selvaggia e incontrollata di interi quartieri dormitorio, abitati molto spesso da non residenti, che con la pandemia si sono svuotati. Questo ci porta anche al tema degli affitti, che colpisce, prima di tutto, studenti e lavoratori fuori sede. Nel momento in cui io posso lavorare da ogni luogo, con una connessione e un computer, perché dovrei pagare 1.000 euro per un comodissimo monolocale da 25 mq, con angola cottura e bagno incastonati l’uno sull’altro, e un confortevolissimo divano che all’occorrenza diventa anche letto?
Dunque, è veramente tutta colpa dello smart working? Forse ci si dimentica, troppo rapidamente, dei benefici del lavoro agile. Incremento di produttività, all’interno di uno scenario win-win-win, dove azienda, lavoratore e cliente ne traggono beneficio. Riduzione dello stress, decongestionamento delle città e abbassamento dei livelli di inquinamento. Lo smart working, inoltre, potrebbe essere una leva per incrementare il potere di acquisto delle persone, senza un reale incremento dei salari. Se non sono più costretto a sostenere delle spese giornaliere, alla fine del mese avrò più denari in tasca.
E chi non può lavorare da remoto? Mi si potrebbe obiettare. Come prima cosa si può pensare a maggiori tutele contrattuali per chi è chiamato a svolgere la propria mansione in presenza, anche attraverso il ricorso a contratti di solidarietà tra i dipendenti. Inoltre non ha senso pensare che se io non ho accesso a una determinata forma di lavoro, allora non ce lo deve avere neanche l’altro. Una seconda, possibile, obiezioni riguarda la scomparsa di molti posti di lavoro. È innegabile che questo possa accadere, anche per lo sviluppo delle tecnologie e modelli di consumo che comporteranno la riscrittura e la ridefinizione di intere filiere. Un processo che, tuttavia, di certo non può essere agevolato o ostacolato unicamente dalla diffusione dello smart working.
Quello che il coronavirus ci ha insegnato è che un cambio di paradigma non è più rinviabile. Si tratta di reinventare abitudini lavorative e stili di vita. Un nuovo orizzonte nel quale parte di ciò che conoscevamo è destinata a finire per trasformarsi. Ma possiamo anche continuare a guadare a ritroso, tenendo lo sguardo fisso su ciò che è stato, con il rischio concreto di andare a sbattere.
Tommaso Nutarelli