Chi ha a cuore la forza della contrattazione collettiva e il valore delle relazioni industriali non può in questi giorni non riflettere sul trentesimo anniversario del Protocollo Interconfederale del 23 luglio 1993. Si è trattato della più importante riforma del sistema contrattuale degli ultimi decenni, definita dopo aver superato l’anno prima il sistema della scala mobile, in un periodo di crisi politica, inflazione, difficoltà economiche e dissesto dei conti pubblici. Solo la capacità di guardare al bene comune e agli effetti di lungo periodo, e non come oggi alle convenienze immediate e al ritorno a breve, hanno permesso all’allora Presidente del Consiglio Ciampi e alle parti sociali di costruire una nuova architettura di relazioni sindacali, unica in Europa, basata su 2 livelli, nazionale e aziendale, che permise il rilancio economico del Paese e ancora oggi è in campo.
Da allora i contratti nazionali governano il potere di acquisto dei salari, mentre la contrattazione aziendale si misura con incrementi derivanti e collegati dall’aumento della produttività. Tutti i patti e gli interventi che sono intervenuti successivamente hanno solo ritoccato quell’impianto.
Tutto bene dunque? La contrattazione collettiva ha dimostrato per lungo tempo ulteriori forti capacità di riforma e arricchimento (basti pensare alla creazione del welfare contrattuale, alla riforma degli inquadramenti, alla regolazione del mercato del lavoro), ma oggi vive una polarizzazione che vede la manifattura, anche in questa tribolata era di post pandemia e inflazione, riuscire a rinnovare i contratti con adeguatezza e senza conflitti, mentre il sempre più vasto mondo dei servizi vivere difficoltà crescenti.
Come metalmeccanici siamo riusciti, con il sistema della postdeterminazione degli aumenti salariali e della clausola di salvaguardia scattata in giugno, a fornire al ccnl un ruolo di governo delle dinamiche salariali non conflittuale ed efficace. Mentre tanti rinnovi aziendali si concludono con ulteriori importanti benefici normativi e salariali.
Ma se l’Ocse ci ammonisce pochi giorni fa che nel 2023 il potere di acquisto dei salari cala in Italia del 7,3% mentre cresce in Belgio (paese con una struttura economica non molto diversa dalla nostra) del 2,9%, non possiamo certo concludere che tutto stia andando bene. La contrattazione collettiva in Italia sta soffrendo nel complesso per diversi fattori: ritardi cronici, eccessiva frammentazione, forte elusione, bassa produttività ma anche bassa capacità manageriale nella gestione delle imprese. E’ anche per questo che prende piede il dibattito sul salario minimo legale, molto attraente sul piano della comunicazione, della simbologia e della semplicità, ma in realtà pericoloso per il sistema di governo dei salari e della contrattazione.
30 anni dopo il sindacato deve ammettere che la capacità di governo e indirizzo della contrattazione che quell’accordo aveva costruito si sta progressivamente sfibrando in diversi ambiti. In Italia esiste una emergenza salariale che va affrontata, guardando a come rilanciare i salari medi e non solo quelli minimi.
E’ venuto il tempo di una grande manutenzione straordinaria del Patto del ’93, che possa mettere al centro il bisogno di creazione di competenze e una loro migliore remunerazione. Per come è cambiato il lavoro un “Patto per le competenze” è ciò di cui abbiamo bisogno. Alzare i salari non è solo un forte bisogno sociale che il sindacato rappresenta, ma è una sfida per continuare ad elevare la competitività dei nostri sistemi economici attorno al crescente contributo offerto dal lavoro.
Servirebbe fortemente che le parti sociali si confrontassero attorno al vorticoso cambiamento che il lavoro sta vivendo, e su questi nuovi elementi assicurare una nuova contrattazione salariale più efficace, senza ritardi, dove venga riconosciuto non solo il potere di acquisto ma soprattutto il valore e la professionalità di chi lavora, la capacità crescente del lavoratore di agire per risultati.
Il lavoro oggi viene più misurato in competenze espresse piuttosto che in ore svolte.
Solo dopo, con maggiore forza, si può chiedere che lo Stato faccia la sua parte detassando e alleggerendo il peso eccessivo del fisco sui salari di chi contribuisce allo sviluppo del Paese più di chi, affittando una casa o giocando in Borsa, vive solo di rendita.
Roberto Benaglia – segretario generale Fim Cisl