di Francesco Garibaldo, direttore dell’Istituto per il lavoro
Vi sono oggi molte prese di posizione a favore di un patto triangolare – imprese, Governo e sindacati – sulla produttività; patto che dovrebbe rappresentare una continuità ideale con i precedenti patti concertativi.
Da parte mia non ci sono obiezioni ideologiche all’idea di un patto; il problema sta nel valutarne l’efficacia e la realizzabilità. Sono altresì convinto che una delle questioni chiave dell’attuale situazione economica ed industriale italiana sia il basso livello di produttività.
Un patto ha senso quando si realizzano alcune condizioni, ad esempio:
1. l’individuazione di una serie causale che identifichi, per ciascuno dei contraenti, una condizione di fatto, da rimuovere, oppure un comportamento, da instaurare, che è direttamente efficace sul risultato;
2. la possibilità per i contraenti, quando si tratti di soggetti collettivi rappresentativi, come nel caso delle parti sociali, di poter conformare i comportamenti di tutti i propri rappresentati a quanto si va pattuendo;
3. una chiara illustrazione dei vantaggi e degli svantaggi; l’idea che questa condizione si realizzi solo con degli scambi è una interpretazione riduttiva dell’idea pattizia, essa infatti può anche consistere nella definizione di comportamenti convergenti, senza nulla scambiare.
Le idee che circolano si basano sull’assunzione della validità di una catena causale il cui punto di partenza sono i comportamenti dei lavoratori – rigidi o flessibili –, non escludendo, per alcuni, anche il livello dei salari. Da qui originerebbe il determinarsi o meno di una condizione di opportunità per gli investimenti che, finalmente resi vantaggiosi, si realizzerebbero determinando direttamente un aumento della produttività. Il Governo e lo Stato dovrebbero facilitare il tutto de-burocratizzandosi, rinunciando cioè ad una serie di controlli inutili e dispendiosi, investendo sulle infrastrutture, sulla ricerca e la formazione.
A me sembra che tale ipotesi non sia realistica in quasi nessuna delle ipotesi che reggono ogni anello della catena.
Il punto di partenza oggi a me pare stare non dal lato della regolamentazione del lavoro ma del modello prevalente di specializzazione produttiva del Paese ed ancora più significativamente dal posizionamento di singoli settori e/o filiere produttive nella divisione internazionale del lavoro; ciò comporta una strategia competitiva prevalentemente da costi, ulteriormente aggravata da un competizione internazionale costantemente strangolata da un eccesso di capacità produttive. La controprova sta nel fatto che sono perfettamente identificabili, regione per regione, aziende che sfuggono a questa condizione e che se la cavano benissimo, realizzando proprio per questo elementi strutturali di flessibilità che non dipendono prevalentemente da una regolazione autoritaria e discrezionale del lavoro ma da modifiche radicali dell’organizzazione dell’impresa, del lavoro e degli stili di management. Occorrerebbe considerare inoltre il problema della sostenibilità ambientale, ad iniziare dall’energia, non come un omaggio ai buoni sentimenti ma come una condizione necessaria ed urgente per realizzare un diverso modello di sviluppo e livelli di produttività stabili nel prossimo futuro.
Aggiungasi fenomeni patologici di finanziarizzazione di strutture produttive strategiche, ad esempio la Telecom, che non a caso vede crescere un conflitto interno tra sviluppo industriale – cioè a medio e lungo termine – e puro ritorno finanziario – cioè a breve.
Occorrerebbe inoltre spiegare come e perché la bassa produttività si sia sposata con profitti record di ampi settori industriali.
Per modificare una situazione siffatta si fa fatica ad intravedere il ruolo di un patto concertativo; sembra trattarsi di un classico caso di politica industriale, cioè di una responsabilità del Governo e dell’amministrazione statale, non tesa a livellare il terreno di gioco o a rimuovere degli ostacoli ma a definire, in una discussione pubblica, il posizionamento strategico del patrimonio industriale del Paese, avendo constatato che il sistema industriale, lasciato a sé stante, ha comportamenti prevalenti di tipo regressivo. Nel momento in cui tale ristrutturazione avesse effettivamente luogo, cioè iniziasse un nuovo corso, allora si aprirebbero possibili scenari di accordi per stabilizzare tale nuovo corso.
Sembrerebbe più realistico, quindi, parlare di un patto per lo sviluppo, intendendo con ciò non un dato solo quantitativo ma una scelta sul modello di sviluppo, e quindi di specializzazione, del Paese. In una tale ottica si può pensare ad un tipo di patto non fondato sullo scambio ma sulla decisione di azioni e strategie convergenti tra gli attori sociali, il Governo e l’amministrazione statale.