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Una riflessione sui “tavoli di crisi” aperti al MISE

Luigi Marelli
Luglio23/ 2021

Ho letto con grande interesse l’articolo di Nunzia Penelope sul “Il Foglio” di mercoledì 21 luglio scorso. L’ho trovato molto stimolante proprio perché iniziava ad uscire dalla logica di una generica e vaga descrizione delle “crisi aziendali” aperte presso il MISE e che ormai stanno diventando vere e proprie emergenze occupazioni.

L’articolo, giustamente, proponeva una lettura più approfondita delle diverse crisi e delle loro differenti causalità. Trovo questo approccio corretto perché è un modo per andare oltre la “pigra” descrizione di fenomeni che hanno la loro intrinseca correlazione con le dinamiche del libero mercato ed è non solo inutile, ma anche dannoso limitarsi ad una superficiale critica dei costi sociali connessi a queste vicende.

Inoltre, se si vuole davvero dare delle risposte concrete sarebbe utile evitare un approccio ideologico ed una narrazione superficiale che si limiti al sensazionalismo dei licenziamenti connessi a queste “crisi aziendali”, magari anche attraverso notizie destituite da ogni fondamento quali l’annuncio dei licenziamenti collettivi via mail.

Chiunque fa o ha fatto il mestiere del sindacalista d’impresa o del sindacalista dei lavoratori sa bene che ci sono procedure da rispettare entro le quali il negoziato deve poter individuare “gli strumenti alternativi ai licenziamenti collettivi”.

Questo è il punto! Certamente da più parti viene indicata l’assoluta assenza di politiche industriali, soprattutto dopo l’abbandono di “industry 4.0” a favore di interventi quali “quota100” e “reddito di cittadinanza” come ben denunciato da Marco Bentivogli in recenti articoli.

Questo è senz’altro vero, come è vera l’assenza di una organica riforma degli “ammortizzatori sociali” e, correlata a questa, una seria azione di politiche attive del lavoro, in grado di formare e reimpiegare i lavoratori che vengono licenziati.

Ma c’è qualcosa che a mio parere sfugge e che io vorrei rappresentare in modo molto netto a rischio di essere semplificatorio: l’assoluta inadeguatezza delle strutture ministeriali nell’affrontare le specificità delle singole crisi occupazionali.

Parlo anche per esperienza professionale. Il più delle volte mi è capitato di partecipare a questi “tavoli di crisi” nei quali l’unico valore aggiunto della struttura ministeriale era l’esercizio più o meno pressante di una moral suasion volta a convincere l’azienda a rinunciare del tutto o in parte ai licenziamenti.

Magari questo avveniva concedendo in cambio un prolungamento del periodo di cassa integrazione. Ma la crisi industriale non veniva affrontata e inevitabilmente la conclusione della vertenza non poteva che registrare la chiusura del sito. Francamente poco importa se la pubblicistica corrente colora questi casi con tinte fosche nelle quali le “rapaci multinazionali” delocalizzano le produzioni contro gli interessi nazionali, per mero interesse di profitto (sic!).

Qui non si tratta ovviamente di omettere di valutare la correttezza della condotta di quelle aziende che abbiano aiuti statali; in questo caso è bene, anzi obbligatorio, che queste risorse vengano restituite, si tratta di affrontare la crisi industriale per quella che è cioè una situazione, il più delle volte, che non consente più la continuazione dell’attività.

Il problema è come cercare di avviare processi reali di riconversione industriale! Il MISE è appunto il ministero dell’industria e dello sviluppo economico, se si deve limitare a concedere la cassa interazione, allora tanto valeva rimanere al Ministero del Lavoro, dove almeno c’erano fior di funzionari capaci di mediare tra le parti in conflitto.

Purtroppo non esiste, e vorrei essere smentito, alcuna struttura presso il MISE che abbia al suo interno le competenze necessarie per: analizzare, definire e individuare soluzioni industriali alternative al collasso delle realtà produttive oggetto della crisi. Non sto parlando di ILVA, ALITALIA o realtà di questo tipo, ma delle centinaia di aziende di media dimensione, ciascuna con uno specifico insediamento in un segmento di mercato, che potrebbero trovare anche soluzioni più consone.

Non mi riferisco all’encomiabile sforzo compiuto dalla Bayer nel nord Italia, che in accordo con le OOSS e l’associazione territoriale di Confindustria hanno trovato una ricollocazione occupazionale per tutti lavoratori interessati alla chiusura del sito produttivo, mi riferisco alla necessità che ci sia una Task Force presso il MISE che abbia le adeguate competenze per affrontare queste crisi aziendali in logica non emergenziale. Una Task Force che sappia individuare un possibile riutilizzo dei lavoratori sulla base di una mappa aggiornata delle loro competenze, che sappia analizzare le potenzialità del sito produttivo in termini di localizzazione, di impianti ed infrastrutture esistenti, per verificarne una eventuale riconversione,  in grado di veicolare la domanda di nuove opportunità produttive (ce ne sono e ce ne saranno sempre di più nei prossimi anni) magari disponibili ad intervenire in aziende che non hanno alcuna possibilità di sopravvivere.

Per fare tutto ciò occorre avere una minima conoscenza anche di quali sono sul mercato internazionale (altro che la guerra alle multinazionali) quei capitali di rischio interessati a nuovi interventi e magari avere consolidati rapporti con società di outplacement e con società di temporary management in grado di offrire servizi di ricollocazione ovvero competenze manageriali necessarie ad accompagnare eventualmente nuovi progetti industriali.

La costituzione di questa struttura dovrebbe essere il vero obiettivo da perseguire, il consolidamento di queste competenze che senz’altro si possono trovare all’interno dovrebbe essere lo scopo principale di una Politica che davvero vuol definirsi industriale e non emergenziale.

Luigi Marelli

Luigi Marelli