Se Draghi riuscirà a formare un governo dovrà occuparsi in fretta di una bomba ad orologeria di cui nessuno parla, ma che già ticchetta nel cassetto delle pratiche inevase. Più che di un singolo ordigno, si tratta di una lunga serie di bombe, collegate l’una all’altra, come quelle mine che si mettono alla base di una collina, per determinare artificialmente una frana che la spiani. Che è esattamente quello che rischia di avvenire. La gragnuola di detonazioni inizierà fra primavera e estate. Ma non è la fine del blocco dei licenziamenti, anche se questo rischia di mettere per strada migliaia di lavoratori. Almeno, però, lascia alle loro spalle, in piedi, le imprese. La bomba a orologeria è invece l’onda di fallimenti di quelle stesse imprese. La raffica di interventi del governo a puntellare debiti e bilanci le ha tenute finora in vita a migliaia. Spesso, però, sono solo zombie, imprese decotte che continuano a camminare. Togliete i puntelli, lasciando scadere i sussidi, e si afflosceranno.
Il fenomeno non è solo italiano. E’ globale ed inequivocabile. Ogni anno, in qualsiasi economia, un tot di imprese fallisce. Quando ci sono recessioni, il numero aumenta. In questa recessione da Covid, invece, è diminuito in tutto il mondo. In misura che gli esperti definiscono “stupefacente”. In media, quando c’è una recessione, spiegano gli economisti del Fondo monetario internazionale, i fallimenti – ad un anno dall’inizio della crisi – risultano aumentati del 12 per cento, rispetto al trend abituale. Nella crisi finanziaria del 2007-2008, aumentarono del 40 per cento. Oggi, dopo un anno di Covid, risultano 30 per cento in meno di quanto ci si aspetterebbe in un anno normale.
Fra il 2021 e il 2022 c’è da aspettarsi che si torni al trend, recuperando la pausa Covid. Questo vuol dire, secondo i calcoli della Banca d’Italia, che, nel nostro paese, rispetto ai fallimenti del 2019, entro i prossimi due anni ci saranno 6.500 imprese fallite in più della media: quasi 17 mila in totale, rispetto alle 11 mila di un anno pre Covid. I fallimenti, però, sono solo la punta di un iceberg. A Via Nazionale hanno provato a calcolare quante siano, accanto alle aziende dichiaratamente insolventi, quelle sottocapitalizzate, cioè non in grado di ripagare i propri debiti (poiché parte di questi debiti è a lungo termine, tecnicamente non sono oggi insolventi). Molte di queste rischiano, infatti, di fallire domani. A tenerle a galla, finora, sono stati gli interventi del governo con le moratorie sui debiti, sulle tasse, sui salari, le garanzie sui crediti.
Questi interventi hanno funzionato. Le 56 mila aziende sottocapitalizzate del 2018 sarebbero diventate 94 mila, senza gli interventi del governo. Il Tesoro – soprattutto con la cassa integrazione – ne ha puntellate 12 mila, impedendo che i loro bilanci colassero a picco. Ma fino a quando?
Il mantra, fra gli economisti, compresi quelli abitualmente conteggiati fra i paladini del rigore, è che vanno aiutate il più a lungo possibile. Lo dice, ad esempio, anche Isabel Schnabel, che rappresenta la Germania dentro il board della Bce. La ragione è semplice. Una crisi spazza via, di solito, le aziende inefficienti. Ma il Covid è una crisi anomala, scatenata da fattori che nulla hanno a che fare con i meccanismi dell’economia. Un ristorante di successo può essere costretto a fallire, non perché nessuno vuole più mangiare i piatti del suo menu, ma perché nessuno riesce ad entrarci, visto il coprifuoco. La conferma della natura anomala della crisi viene da un altro dato della ricerca Bankitalia. Fra le aziende sottocapitalizzate censite dalla ricerca c’è solo il 5 per cento delle imprese manifatturiere, che, dopo la primavera, sono rimaste esenti dalle quarantene. Ma c’è, invece, il 42 per cento delle aziende italiane legate al turismo.
Che fare, però, se la ripresa, come pare ora, continua a tardare e la crisi si mangia un altro anno intero, fino al 2022? Le ultime previsioni economiche dicono che, quest’anno, l’economia italiana crescerà poco più del 4 per cento. Considerato che il confronto si fa con un anno – il 2020 – il cui c’è stato un crollo di quasi il 9 per cento, significa che recuperiamo appena la metà di quanto abbiamo appena perso. E allora? Continuare con incentivi e sussidi? Il consiglio degli economisti è di largheggiare più che si può, sperando nella ripresa. Ma il disavanzo pubblico non si può dilatare all’infinito e le aziende zombie sono un problema anche per le banche, che rischiano di veder moltiplicarsi la quota di crediti inesigibili che, alla fine, appesantiranno i loro bilanci.
Il suggerimento che viene dalle banche centrali, da Isabel Schnabel come dal governatore italiano, Ignazio Visco, è di sforzarsi di distinguere fra zombie e aziende in difficoltà, ma ancora vitali. Ma qual’è la cartina di tornasole? Per capire se un’azienda è vitale, normalmente, bisogna starle molto vicino. Chi è posizionato meglio è la banca creditrice. Tuttavia, come nota la stessa Schnabel, spesso la banca ha interesse a prolungare artificialmente la vita di un’azienda per non dover esporre il buco del credito inesigibile nel suo bilancio.
La conclusione – non particolarmente incoraggiante – è dita incrociate e speriamo nello stellone. Più precisamente, speriamo di uscire – noi e gli altri paesi – dall’ombra lunga del Covid prima che inizi la stagione delle vacanze. Riportare a galla il grosso del turismo, degli alberghi e dei ristoranti sarebbe una boccata d’ossigeno e uno stop alle lancette dell’orologio della bomba.
Maurizio Ricci