C’è una riflessione che val la pena di affrontare, con calma ma anche con la giusta determinazione. E’ la riflessione relativa alla domanda se esiste un nesso e se c’è quale sia, tra la contrattazione collettiva, i suoi soggetti e la “Società Aperta” cosi come descritta dal saggio di Karl Popper “La società aperta e i suoi nemici” scritto ormai settantacinque anni fa.
Perché aprire questa riflessione ora? Io credo che stiano giungendo molti nodi al pettine.
Come già osservato in diversi interventi, anche sul Diario del Lavoro, da più parti si sta riflettendo sulla incipiente crisi della contrattazione collettiva ma, come ogni “crisi”, essa è soprattutto una metamorfosi.
La contrattazione collettiva, i suoi protagonisti, in senso più lato, i c.d. “corpi intermedi” stanno cercando un nuovo ruolo e una nuova collocazione nella società e questo non può solo limitarsi ad una “residuale” rappresentanza dei loro legittimi interessi.
Una “reductio” alla rappresentanza corporativa dei singoli interessi, non importa se dei lavoratori o dei datori di lavoro, non potrà che condurli ad una progressiva marginalizzazione, peggio all’estendersi di un conflitto sterile, accompagnato magari da qualche querulo commento dei loro Capi destinato a risolversi in subalterne invocazioni alla “politica” di fare di più e basta.
Tutto questo porta inevitabilmente e pericolosamente questi soggetti a diffidare di una “società aperta” a contrastare ogni sviluppo in quella direzione.
Così facendo, come diceva P. Carniti “si guida guardando solo nello specchietto retrovisore” si subisce il cambiamento non certo lo si governa, ma quello che è peggio si dà un fortissimo alibi alla politica per “corrompersi” per adeguarsi a quello che viene chiamato “populismo” rinunciando al suo ruolo di leadership.
Quanto sta avvenendo in questi tempi, se proviamo un attimo ad alzare lo sguardo oltre le singole faccende, per quanto importanti, sta dimostrando che occorre pensare a nuovi paradigmi sociali.
Ciò sarà possibile se tutti i soggetti collettivi saranno in grado di interiorizzare nelle proprie elaborazioni e di conseguenza nelle proprie azioni, una convinta accettazione dei presupposti della “società aperta” nella quale la dialettica sociale e l’inevitabile conflitto contribuisce, non ostacola, la crescita di quel tipo di società.
Non sono solo i monopoli economici i nemici della società aperta, non sono solo le regressioni autoritarie e le pulsioni isolazioniste a minacciarla, sono soprattutto le paure, molte delle quali giustificate, dei ceti più deboli di perdere quel poco di sicurezza acquisita dai loro padri e dai loro nonni, in molti casi a prezzi di duri sacrifici.
Non si può chiedere ai singoli soggetti, nemmeno ai singoli stati, di non temere il cambiamento incombente. Non ne saranno capaci se non crescerà una nuova leadership collettiva, a partire dai soggetti organizzati che rappresentano il lavoro, in grado di coniugare nuove tutele con un nuovo e più avanzato assetto sociale con più competizione non con meno, con più aperture non con meno, con più sfide.
Se si blocca l’ascensore sociale che consente un adeguato ricambio delle Elite, la società si blocca e ciascuno si “incarognisce” nella difesa del proprio orticello, peraltro sempre più arido e incapace di soddisfare persino bisogni primari.
Una antica maledizione cinese recita cosi “che tu possa vivere in tempi interessanti”.
Penso che questi lo siano e in modo molto particolare.
Riflettere su questi aspetti non deve sembrare una fuga dalla realtà, anzi è la premessa per affrontare questa nuova realtà, rifuggendo da analisi pigre e precostituite o peggio ancora negazioniste.
Società aperta, nuove rappresentanze, nuovi lavori, nuovi paradigmi interpretativi richiedo pazienza e tenacia ma soprattutto grande determinazione.
L’alternativa non potrà che essere un altro periodo “oscurantista”. Non importa se giustificato o meno da un consenso di popolo. Ne abbiamo già visti nella storia anche recente e certo non hanno portato bene.
Luigi Marelli