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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - Europa, la vera posta del voto di giugno

Europa, la vera posta del voto di giugno

di Maurizio Ricci
13 Maggio 2024
in Poveri e ricchi
L’impegno dell’Europa per una legislazione sempre più efficace

Vincerà la Meloni, reggerà la Schlein (o viceversa)? Salvini eviterà di sprofondare in serie B? Parleremo ancora delle scaramucce fra Renzi e Calenda? Ormai le elezioni europee sono alle porte e il mix di sport e tifo è già ai massimi. La posta, in effetti, è più alta che mai. Solo che non è quella di cui si parla.

Comunque vada, il risultato avrà un gran rimbalzo mediatico, ma di respiro breve. In chiave nazionale, infatti, storicamente e per tradizione il voto europeo viene vissuto come poco più di un sondaggione. In grande stile, vista la vastità del campione, e assai significativo, dunque, ma privo di conseguenze concrete. Registra gli umori e non le scelte. Consente all’elettore Pd, senza danni reali, di votare per Fratoianni per spingere a sinistra la Schlein o Renzi/Calenda per spingere in senso opposto. Consente all’elettore della Lega di votare Meloni al solo scopo di far fuori, finalmente, Salvini. Sono messaggi e non mandati. E, infatti, i risultati sono spesso sorprendenti, quanto presto irrilevanti. Lo mostra la velocità con cui si sgonfiano. Ecco il 41 per cento del Pd nel voto europeo del 2014 che si dimezza, quattro anni dopo, al 22,86 per cento delle politiche. E, simmetricamente, il 34 per cento di Salvini alle europee del 2019, ridotto di quasi tre quarti all’8,79 per cento alle politiche di tre anni dopo. Abbiamo scherzato, sembrano dire gli elettori e, infatti, gli exploit e i flop delle europee, in chiave nazionale, è meglio archiviarli in fretta.

Ma in chiave europea, no. Soprattutto, non questa volta. Nelle Europee 2024 è in gioco, come mai, forse, prima, il destino d’Europa. Nelle due dimensioni della politica: i rapporti di forza, da una parte, missione e programmi dall’altra.

La Ue è di fronte, infatti, ad una svolta epocale. Da cinquanta anni, a Bruxelles regnano gli eredi del grande boom europeo del dopoguerra. Sempre la stessa alleanza fra democristiani e socialisti, quella sorta di centrosinistra lasco che ha creato e fondato il welfare europeo, l’integrazione di mercati ed economie, la missione liberale ed ecologica che la Ue ha portato in giro per il mondo. E’ un modello sociale ed economico specifico, quasi una identità ideologica, sostenuta e propugnata da una coalizione immutabile, anche se anomala, per lo più, rispetto alle singole realtà nazionali, dove popolari e socialisti, di solito, sono schierati gli uni all’opposizione degli altri. Adesso, sia la coalizione che il modello sono in bilico.

Il vento è cambiato. In Italia, in Finlandia, in Ungheria, in Slovacchia, presto in Portogallo, domani, forse, in Francia, la destra radicale è dentro il governo. In Svezia lo appoggia. In Olanda, ha vinto le elezioni. A piegarsi al vento è la destra moderata, i popolari del Ppe, sempre più impegnati a distinguere fra una destra inaccettabile (i neonazisti della Afd, ma anche i loro sodali della Lega) e una più presentabile (con la faccia di Giorgia Meloni). E’ stata la stessa Ursula von der Leyen, nell’unico dibattito preelettorale che si è svolto finora, a non escludere – a sopresa – alleanze diverse da quelle storiche. Dipende, ha detto, dagli schieramenti nel nuovo Parlamento di Strasburgo.

In realtà, nonostante gli ammiccamenti e le aperture verso destra, è assai difficile che a Bruxelles si arrivi ad un vero e proprio ribaltone, con un esecutivo Ursula-Giorgia. I sondaggi dicono che i numeri sono ben lontani dal consentirlo. E, d’altra parte, socialisti e liberali – l’altro braccio della maggioranza affermatasi cinque anni fa – escludono qualsiasi intesa con quelli che in Europa si chiamano Conservatori. Ma la pressione elettorale di questi conservatori sui popolari sta già modificando l’orientamento di una delle due anime dell’Europa di sempre. L’assemblea appena conclusa del pilastro dei popolari europei (il Ppe tedesco) ha sancito l’allontanamento dal centrismo della Merkel da parte del nuovo leader, Friedrich Mertz e un avvicinamento a temi cari alla destra meloniana.

In buona misura, si tratta soprattutto del tentativo di parare la concorrenza elettorale dei conservatori presso settori di elettorato, storicamente vicini al Ppe, come, ad esempio, il mondo agricolo. Ma, anche se il ribaltone, rispettando i sondaggi, non ci sarà, rischia di affermarsi a Bruxelles un diverso equilibrio delle politiche, che rifletta il diverso orientamento dei popolari, destinati comunque, a quanto pare,  a riconfermarsi come il maggior partito dell’Unione. Lo si vede già nelle giravolte di Ursula che, dopo aver rivendicato, per metà mandato, l’irrinunciabilità e le ambizioni del Green Deal come asse principale della sua gestione si è convertita, nell’altra metà mandato, ad un ruolo di frenatrice.

E’ probabile che i popolari – con o senza Ursula – portino lo stesso istinto di retromarcia anche nella futura coalizione che dovessero rinnovare con i socialisti. Anche con la coalizione di sempre, dunque, ci ritroveremmo con un volto diverso d’Europa. Nell’ipotesi migliore, più realista e meno visionario. Nell’ipotesi meno incoraggiante, più rinunciatario e meno ambizioso. In soldoni: ridimensionamento degli investimenti necessari per rendere possibile e tollerabile la transizione ecologica, rallentamento degli obiettivi “verdi”, più attenzione agli interessi nazionali, più decisione nel fermare le ondate migratorie, vissute come ostili. Sul piano operativo: maggior disponibilità ad accogliere le pressioni dei governi, rispetto alla dinamica dell’integrazione europea. E’ un percorso lastricato di ostacoli e contraddizioni fra i diversi interessi nazionali e lo sbocco può essere, più che una inversione a U, una altrettanto pericosa paralisi – fino ai limiti dell’”implosione dell’idea d’Europa”, secondo i timori che esprime lo spagnolo Sanchez – di quel percorso di integrazione che disegnano i rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi sulla riforma del mercato unico e delle istituzioni europee, forse davvero il  colpo di coda di una idea d’Europa maturata in questi decenni.

Il voto di giugno, assai più che a definire il futuro di Meloni, Schlein e Salvini serve a stabilire che se questo finale sia inevitabile.

Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

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