Le elezioni dello scorso settembre non segnalano uno smottamento a destra dell’elettorato:il cuore dell’elettorato era già lì. In altre parole, la netta affermazione della destra radicale non è il frutto dell’adesione di stati crescenti di elettori a nuovi valori e messaggi di cui è portatrice la stessa destra radicale. Piuttosto, questa destra è stata capace di navigare su umori ed emozioni che larga parte dell’elettorato ha sempre nutrito, ma che, finora, avevano lasciato il passo ad altre aspirazioni e altre urgenze. L’elettorato è rimasto lo stesso, sono cambiare le sue priorità.
In qualche modo, lo abbiamo sempre saputo. Per un secolo, la sinistra si è battuta e sbattuta perché, in un paese di radice contadina, largamente tradizionalista e conservatore, i ceti popolari si rendessero conto di avere esigenze e problemi comuni. Senza scomodare il concetto di classe, si trattava di far emergere interessi convergenti alle riforme e alla redistribuzione del reddito. Quando questi interessi si sono fatti opachi, frammentari, a volte contradditori, è salita in primo piano l’importanza dei valori culturali. La tentazione di scaricare sulla sinistra italiana – Pd e 5Stelle – l’accusa di non aver saputo cogliere e gestire questo riposizionarsi degli elettori è inevitabile. Ma – raccontano Oren Danieli e altri due studiosi israeliani in “Decomporre l’ascesa della destra populista radicale”, uno studio pubblicato sul sito Vox – il fenomento non è solo italiano. Riguarda almeno altri venti paesi, soprattutto europei.
Tre ipotesi, secondo lo studio, possono spiegare il mutare del panorama politico. Gli elettori possono essersi sentiti traditi dai partiti tradizionali, confluiti su una indistinta piattaforma di centro. Oppure, possono aver reagito agli scossoni dell’accumularsi di crisi e di emergenze dell’ultimo ventennio. Ma solo il 7 per cento della crescita della destra, calcolano invece Danieli e colleghi, è dovuto alla conversione degli elettori ad una nuova proposta politica. Per il 45 per cento, invece, la crescita della destra radicale è dovuta al coincidere della sua proposta con l’affermazione di una diversa scala di priorità degli elettori: convinzioni già presenti e radicate non vengono più subordinate ad altre motivazioni.
Con una formula, si può parlare di contrapposizione di economia e cultura. Dal 2000 ad oggi, gli autori rintracciano un sostanziale ridimensionamento dell’importanza dei temi economici. L’affermarsi di un, sia pur relativo, benessere, almeno in chi va a votare, ha portato ad una subordinazione di questi temi a quelli più propriamente socio-culturali, dove invece la svolta, in termini di urgenza ed attenzione, è evidente.
Il punto chiave è che, tuttavia, su questi temi, l’elettorato, da venti anni a questa parte, è cambiato ben poco. A parte casi particolari di singoli paesi, nella media europea l’atteggiamento degli elettori è radicalmente cambiato solo su un punto: l’accettazione dell’omosessualità. Per il resto – disagio razziale, insofferenza per vicini immigrati, priorità ai cittadini nazionali per il lavoro, scarsa fiducia nellaUe – i mutamenti di atteggiamento sono quasi zero rispetto al 2004. Anche venti anni fa gli immigrati suscitavano diffidenza in Europa, ma non erano, a differenza di oggi, l’elemento che faceva pendere il voto da una parte, piuttosto che dall’altra.
Non tutto l’elettorato, peraltro, è uguale. La leva dell’ascesa della destra radicale è in aree precise dei votanti: uomini piuttosto che donne, anziani piuttosto che giovani, senza esperienza universitaria, che non abitano nelle città. E’ un identikit che scavalca l’Atlantico e interroga un po’ tutte le democrazie occidentali. Venti anni fa, Thomas Frank, nel suo “Che succede in Kansas?” poneva, in termini anche più crudi, il problema di un elettorato impoverito che, in uno degli Stati più poveri degli Usa, continuava a votare per il taglio delle tasse ai ricchi e la riduzione del welfare, in nome della difesa di valori culturali tradizionali. Chissà se Lollobrigida e Salvini sono stati in Kansas.
Maurizio Ricci