La Cgil sta preparando un Nuovo Piano del Lavoro. Il primo vide la luce negli anni 50 per volontà di Giuseppe Di Vittorio. La confederazione allora, in quel periodo di grande entusiasmo per la ripresa economica, ma anche di grande tensione nel mondo del lavoro per il modo in cui questa ripresa avveniva, si pose il problema del lavoro e delle condizioni nelle quali questo si esercita. Adesso, che la stretta della crisi finanziaria che stiamo vivendo si fa sempre più forte e preme in primo luogo sul lavoro, la Cgil vuole dotare il paese di uno strumento per la crescita più efficace di quanto non siano state le politiche finora messe in atto. Per questo è stata elaborata una bozza, sulla quale adesso stanno lavorando le strutture regionali e di categoria della confederazione, con l’obiettivo di implementarla e dar luogo a una serie di piani del lavoro regionali e territoriali. Il documento che uscirà da questo processo sarà al centro della Conferenza Programmatica della confederazione che si terrà nel febbraio del prossimo anno. Un lavoro complesso, al quale saranno chiamate innanzitutto le altre confederazioni perché diano il loro contributo di idee. La ratio di questo piano del lavoro, le sue motivazioni e le possibili conseguenze sono al centro di una conversazione che abbiamo avuto con Gaetano Sateriale, che ricopre il ruolo di coordinatore per la Cgil dell’intera operazione.
Sateriale, quali sono state le motivazioni di fondo che hanno portato la Cgil a elaborare questo piano del lavoro?
La costruzione del nuovo piano del lavoro al quale sta lavorando la Cgil parte da una considerazione di fondo. Non è con il rigore finanziario che si costruisce la crescita. Certo, Lo sviluppo deve essere accompagnato da una maggiore disciplina di bilancio, per non creare nuovi squilibri, ma la disciplina da sola non incrementa il Pil e non crea un posto di lavoro in più. Il rigore finanziario è come il salasso, che nei secoli passati i cerusici usavano, anche a sproposito, tanto che spesso uccideva il paziente. Noi cerchiamo qualcosa di diverso.
Partendo da cosa?
Da politiche che, sollecitando la domanda, forniscano occasioni per la ripresa degli investimenti nei processi produttivi, e per la creazione di nuovi posti di lavoro.
Come realizzare queste politiche?
Intervenendo in modo attivo sull’economia reale. Non è vero che solo una diversa politica economica europea può rendere possibile una politica di crescita in Italia. La nuova politica europea è necessaria, ma noi pensiamo che non si debba stare fermi in attesa che la Germania cambi linea. La vera sfida è creare le occasioni per la crescita qui e subito. Anche perché l’Italia soffre di sue particolarità in questa crisi, che non a caso nel nostro paese si è manifestata almeno otto anni prima che nel resto dell’Europa. Le statistiche dell’export, della produttività, della competitività, degli investimenti industriali ci dicono che il rallentamento data almeno dal 2001.
Dall’entrata in vigore dell’euro?
Esatto. Non c’è un rapporto diretto di causa ed effetto, ma l’euro impedisce i recuperi di competitività da svalutazione della moneta, su cui si è costruita gran parte della capacità italiana di stare sui mercati internazionali fino ad allora. Era necessario fare un salto di valore aggiunto delle nostre produzioni: innovazioni, qualità… Invece l’industria italiana non investe su se stessa e tenta di competere riducendo e svalutando il lavoro. L’euro invece che essere una grande occasione di internazionalizzazione delle produzioni italiane finisce per ridurne i margini di accumulazione e di competitività. Non per tutte le imprese, per fortuna. Poi arrivano la crisi, la recessione, le restrizioni creditizie. Ma il nanismo delle imprese italiane è un fattore di debolezza cronico, non è un portato della crisi.
Quale è la vostra ricetta?
Il piano del lavoro parte dall’esigenza di risolvere i punti critici sfruttando le risorse che il paese ha. Partire dai limiti della nostra economia e far leva sulle sue potenzialità.
Quali sono i limiti?
Innumerevoli, troppi. L’assetto idrogeologico, le carenze dei trasporti, le infrastrutture, stradali e informatiche, il sistema dei porti, non utilizzato, il costo dell’energia e la sua dispersione, il limitato numero di laureati e diplomati, l’inefficienza degli apparati pubblici, i limitati ambiti della ricerca privata e pubblica, le disuguaglianze del sistema di welfare. Ancora, la carenza anche culturale della politica sui temi dell’industria e dell’economia reale.
E le potenzialità?
Le ricchezze culturali, archeologiche, ambientali, la qualità del territorio, la capacità innovativa degli italiani, i tanti settori e le tante imprese di punta.
Come è possibile risolvere i tanti problemi del nostro paese?
Il piano del lavoro vuole suscitare la domanda, e in questo ci differenziamo dalla politica tradizionale del sindacato. Non vogliamo individuare i settori da stimolare a pioggia perché ciò induca la crescita, ma individuare i bisogni perché partendo dalla loro soddisfazione si determini la crescita. Quindi non prevediamo incentivi generalizzati per tutti i soggetti di questo o quel settore, pensiamo di muovere delle azioni che determino una domanda.
In che modo?
Prendiamo un’azienda in difficoltà, la Irisbus, che fabbrica appunto autobus. Il piano del lavoro non crede che si debba intervenire sulla Irisbus per risolvere i suoi specifici problemi, ma sul territorio nel quale questa azienda opera per determinare una ripresa della domanda di mercato. Se i Comuni chiederanno trasporti pubblici a ridotte emissioni, le aziende di trasporto dovranno dotarsi di nuovi autobus e la Irisbus potrebbe giovarsi di questa congiuntura. Sempre che sia capace di stare sul mercato, altrimenti saranno altre aziende, magari europee, che ne usufruiranno.
Non quindi interventi atti a sostenere aziende in crisi?
La gestione delle crisi si fa caso per caso, individuando soluzioni industriali specifiche non con gli indirizzi generali. In questo il Piano del Lavoro ha un’impronta neokeynesiana, ma anche neoshumpeteriana, perché non distribuisce dei salvagente a prescindere. La domanda che vuole generare deve essere innovativa e deve portare lavoro di qualità. E infatti il piano del lavoro è una traccia che deve vivere nei territori, sulla base delle loro esigenze quotidiane, non nel chiuso di un ministero.
Sulle spalle di chi si muove?
Sono tanti gli interlocutori, i governi nazionali, regionali e locali, le imprese pubbliche e private, le università. Queste ultime perché servono dei progetti da costruire punto per punto. Le imprese perché hanno delle capacità di sfruttare delle idee, dei piani, che però per vedere la luce, per essere realizzati devono incontrarsi con una richiesta di mercato. Se un’azienda ha la possibilità di realizzare un sistema che monitori, per esempio, lo slittamento delle colline ed è capace di avvertire se il crinale di una di queste si sta spostando, questo è molto importante, perché un paese potrebbe prevedere una frana e prendere i provvedimenti necessari con tempestività. Ma questa azienda deve ricevere una richiesta, altrimenti non sviluppa quel piano, quel sistema. Qualcuno deve chiederglielo. Un altro esempio, la regolazione del traffico marittimo. Nei nostri mari non è difficile far agire un sistema che metta tutto il traffico sotto controllo (come quello aereo) e questo potrebbe essere di grande aiuto alla sicurezza ambientale e delle persone, ma se non c’è un committente nessuna azienda metterà a punto un progetto del genere, pur perfettamente realizzabile.
Il ruolo dei governi?
Al governo nazionale il piano del lavoro chiede delle priorità e degli indirizzi. Delle priorità perché sono tante le esigenze del paese e degli indirizzi per sapere quali le scelte da compiere. E servono risorse, non per finanziare gli indirizzi, ma i progetti territoriali che da quegli indirizzi discendono. Risorse pubbliche che stimolano e affiancano risorse private. Risorse da distribuire per step di avanzamento e solo se intervengono risorse private.
I governi regionali e locali che ruolo hanno?
Sono loro che costruiscono i progetti coerentemente con gli indirizzi presi al livello nazionale e con il consenso di chi quei progetti deve costruire e utilizzare.
Tante risorse?
Certamente. Il piano del lavoro prevede una stima di 40–50 miliardi di euro.
Dove si trovano?
Nella lotta all’evasione fiscale, nella riduzione dei costi della politica, in una patrimoniale, con una diversa gestione delle fondazioni bancarie, da un riordino dei fondi europei che ci sono, ma non sono spesi o sono spesi male, da un allentamento del patto di stabilità. Ma ci sono azioni che producono anche risparmi: un posto letto ospedaliero costa di più di un’assistenza medica domiciliare. O azioni che non costano nulla: una decisione del Comune che vincola le nuove costruzioni al risparmio energetico, ad esempio…
Il sindacato che ci mette?
Il sindacato regionale e territoriale è il soggetto che può avviare questo percorso. La contrattazione territoriale e di categoria è il luogo dove si indicano i possibili interventi. Quindi il piano del lavoro prevede una proiezione della contrattazione fuori dei luoghi di lavoro. Ma nella contrattazione aziendale si devono affrontare temi coerenti per aumentare l’innovazione, la qualità dei prodotti, la qualità e stabilità del lavoro, con l’obiettivo di far crescere la produttività e la competitività delle imprese in coerenza con l’accordo del 28 giugno. Ma questa è materia di trattative in corso nel rinnovo dei contratti e a livello confederale. Vedremo come finiscono.
Massimo Mascini