Al giro di boa che chiude il terzo anno di Giorgia Meloni a palazzo Chigi, il bilancio della politica economica e sociale del governo tende malinconicamente allo zero. I conti sono in ordine, può orgogliosamente rivendicare il ministro del Tesoro, Giorgetti, ma i meriti di una finanza pubblica in equilibrio migliore del previsto sono suoi, solo nella misura in cui sono state evitate le derive e le avventure del precedente governo 2018 egemonizzato dalla Lega (impresa, peraltro – gli va riconosciuto – non semplice). Il grosso dell’operazione “nascondi un debito pubblico inesorabilmente crescente” lo hanno fatto la svolta interventista del nuovo governo tedesco, che ha zavorrato i Bund, e il tracollo francese, che ha affondato i titoli di Parigi: sui mercati finanziari, i paragoni contano. Ma l’economia reale? Ha la vitalità di una batteria scarica: gli investimenti non decollano, nonostante il Pnrr, e i redditi, a dispetto dell’ampio dispiego di fuochi d’artificio propagandistici, puntano all’ingiù. Non saranno i consumi a ridare sprint all’economia.
Il verdetto arriva al termine di una giornata pessima per l’immagine pubblica del governo. Chissà se a palazzo Chigi pensano che, come i magistrati, anche le autorità indipendenti invadono il campo e rendono difficile al governo di agire come crede. Fatto sta che, nelle audizioni parlamentari sulla manovra di bilancio, uno dopo l’altro, Istat, Ufficio parlamentare del bilancio, Corte dei conti, Banca d’Italia hanno sostanzialmente svuotato la politica fiscale del governo: condoni e rottamazioni pesano, le riforme si perdono. Fra ritocchi alle aliquote, bonus e fiscal drag, gli anni del governo Meloni si risolvono in un gioco delle tre carte. Il governo riprende con la sinistra (il fiscal drag) ciò che dà con la destra (bonus e riforme). Al massimo, i redditi bassi recuperano. Le classi medie, obiettivo specifico e ufficiale della riforma delle aliquote, vanno, in realtà, sotto. E i ricchi? Loro, ancora una volta, si salvano.
L’abbassamento dal 35 al 33 per cento dell’aliquota centrale dell’Irpef favorisce, in modo netto, hanno detto ai parlamentari gli economisti, i più ricchi: più esattamente, il 40 per cento più ricco cui va l’85 per cento delle risorse a cui il fisco rinuncia. Il risparmio, per un dirigente d’azienda, arriva a 408 euro l’anno. Per un impiegato il risparmio si ferma a 123 euro. L’operaio deve accontentarsi di 23.
Ma è una cortina di fumo. C’è il fiscal drag a imbrogliare le carte: se si considera quanto il fisco incassa in più perché l’inflazione riduce i redditi reali, ma le aliquote si applicano senza tenerne conto, i conti sono diversi. L’Ufficio parlamentare del bilancio dice che le riforme (compresa quelle delle aliquote) varate in questi anni compensano l’effetto del fiscal drag solo fino ad un reddito annuale di 32 mila euro. Ovvero, nonostante i proclami del governo sui benefici delle riforme, anche i redditi più bassi, invece di guadagnare, devono accontentarsi di uno zero a zero. Non è quello che racconta la Meloni.
In realtà, però, quella soglia di 32 mila euro che l’Upb indica come il limite sotto il quale il fiscal drag si compensa, è ottimistico. Tenendo conto anche delle addizionali regionali e comunali, dice una ricerca di Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, quella soglia crolla a 22 mila euro. Solo gli ufficialmente poveri, insomma, scampano al fiscal drag. Tutte le classi medie, anche le meno favorite, con redditi fra 22 mila e 5o mila euro, chiudono, invece, in perdita la partita fra riforme e fiscal drag e, dunque, in rosso i conti con la politica fiscale del governo. E oltre 50 mila? Secondo l’Upb, man mano che il reddito sale la differenza fra il peso dell’aliquota effettiva e quella che sarebbe un’aliquota indicizzata all’inflazione progressivamente si riduce e scompare. Le classi medie pagano e i ricchi non piangono mai: il resto, checchè dica Palazzo Chigi, è solo pubblicità.
Maurizio Ricci


























