L’Italia è un paese particolare, soprattutto quando si affronta il tema del mercato del lavoro. Più si approfondiscono i problemi più si acquisisce la convinzione che platee classificate ciascuna per sé, siano in realtà le medesime. Mettiamo il caso, per esempio, del lavoro irregolare/sommerso: vi è un rapporto con i NEET? A lungo è stato ritenuto un fenomeno a sé; nuove indagini, invece, tendono a riportarlo nell’ambito del lavoro irregolare e quindi ad un’area di parziale autonomia economica. Noi siamo indotti da una lettura a canne d’organo delle statistiche a considerare come corpi separati, vere e proprie ‘’monadi senza porte né finestra’’ le platee dei disoccupati, dei NEET, dei lavoratori irregolari, mentre si tratta di realtà che si giustappongono. Questa analisi è in linea con i nuovi elementi di valutazione contenuti anche nel rapporto Lost in Transition del Consiglio nazionale dei Giovani, dove nel caso dei NEET, l’Italia si conferma essere ancora il secondo Paese nell’Ue con il più alto tasso di NEET, preceduto solo dalla Romania (19,8%), e lontano dalla media europea dell’11,7%.
Nel rapporto citato viene tracciato un quadro molto diverso da quello consueto. Pur confermando che, a livello ufficiale, poco più di due milioni di giovani non studia e non lavora, il rapporto qualifica questa cifra con dettagli che assumono una grande importanza per chiarire quale sia la natura del fenomeno in Italia. Lost in Transition riporta infatti che, stando ai dati raccolti, l’88,9% dei NEET italiani che vivono nelle città e quasi il 75% di quelli che vivono nelle aree interne ha o avrebbe avuto di recente un lavoro. Questi impieghi però non emergono nelle statistiche ufficiali perché in buona parte si tratta di lavori irregolari, senza contratti e senza una retribuzione a norma di legge. Come riassume lo stesso rapporto, si tratta quindi di lavoro nero, ma non soltanto dei soliti lavoretti. Il 50% dei NEET nelle aree urbane dichiara di essere economicamente indipendente, percentuale simile a quella dei NEET che risulta avere un diploma di laurea o accademico nelle aree urbane, oltre il 63%. Anche se questi dati sono confortanti per quanto riguarda la situazione reddituale effettiva dei giovani italiani, rimangono però comunque gravi dal punto di vista economico e sociale. Una fascia significativa della popolazione attiva, tra quella che dovrebbe essere maggiormente coinvolta nell’attività economica, è relegata a un ruolo marginale. I lavori saltuari, senza contratti e garanzie, comportano un’incertezza che compromette i progetti futuri di queste persone e ha impatti seri su diversi aspetti della società italiana, dai consumi (solitamente non coerenti con i redditi dichiarati e pertanto non giustificati) fino allo sviluppo di una famiglia e alla crisi delle nascite.
Il lato oscuro dell’Italia emerge anche dai dati Istat sull’economia non osservata. Nella media del quinquennio 2017-2021, per il quale si dispone di un quadro completo delle valutazioni, il gap complessivo risulta di circa 96 miliardi di euro, di cui 84,4 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,6 miliardi di mancate entrate contributive. Importi robusti anche se appare confermata la tendenza alla contrazione dell’economia sommersa e dell’evasione fiscale nel medio periodo, a beneficio dell’efficienza e dell’equità dell’intero sistema economico con conseguenti impatti positivi sulla finanza pubblica.
La stima del sommerso economico nei Conti nazionali comprende le componenti relative a:
- sotto-dichiarazione del valore aggiunto;
- componente del valore aggiunto riconducibile all’impiego di lavoro irregolare;
- altre componenti del sommerso economico.
Sulla base dei Conti nazionali pubblicati a marzo del 2024, il valore aggiunto generato dal sommerso economico si attestava, nel 2021, a 173,8 miliardi di euro, segnando una crescita del 10,5% rispetto all’anno precedente (quanto era pari a 157,3 miliardi). Le componenti più rilevanti dell’economia sommersa sono quelle legate alla correzione della sotto-dichiarazione del valore aggiunto e all’impiego di lavoro irregolare. Nel 2021 esse determinavano, rispettivamente, il 52,5% e il 39,2% del valore aggiunto complessivo generato dall’economia sommersa, di cui è bene notare i 68 miliardi prodotti dal lavoro irregolare (4,2% del PIL).
Un ulteriore elemento che caratterizza il mercato del lavoro alla stregua di una maschera che ne altera i connotati – e che dovrebbe far riflettere anche sulla rappresentazione delle condizioni reali della povertà – ci è offerta dalle ultime statistiche Istat sui posti vacanti. Dati che si riferiscono alle ricerche di personale che, con riferimento all’ultimo giorno del trimestre, sono iniziate e non ancora concluse. In altre parole, sono i posti di lavoro retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca – attivamente e al di fuori dell’impresa – un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo. Il tasso di posti vacanti, pertanto, è il rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e la somma di questi ultimi con le posizioni lavorative occupate. Tale indicatore può fornire informazioni utili per interpretare l’andamento congiunturale del mercato del lavoro, dando segnali anticipatori sul numero di posizioni lavorative occupate.
Si tratta comunque di un punto importante di osservazione che si combina con le rilevazioni mensili di Excelsior – Unioncamere che misurano, attraverso il censimento di un campione assai rappresentativo di imprese collegate, il numero delle assunzioni disponibili e le difficoltà di reperirle sul mercato del lavoro. In sostanza, percentuale di posti vacanti, mismatch tra domanda e offerta di lavoro (che è ormai divenuto un fattore di grande difficoltà per le imprese) contribuiscono a segnalare un fenomeno nuovo: la crisi del mercato del lavoro sul versante dell’offerta. Il tasso di posti vacanti nelle imprese è salito da poco meno dell’1% di inizio 2016 fino al 2,2% di fine 2022 (con l’eccezione ovviamente del periodo di lockdown). Nel terzo trimestre 2024, il tasso di posti vacanti destagionalizzato, per il totale delle imprese con dipendenti, rimane invariato al 2% come nel trimestre precedente. In particolare, sul risultato per il totale economia contribuisce la stabilità dal lato dei servizi (fermi al 2,1%) e la variazione negativa di 0,1 punti percentuali dell’industria (che si attesta all’1,9%).
Secondo un focus della CNA, pubblicato nell’ultimo numero del Bollettino di Adapt, l’alto numero di posti di lavoro vacanti registrato in Italia, oltre a dipendere da una partecipazione al mercato del lavoro da sempre molto bassa (nel nostro Paese gli inattivi, ossia le persone non occupate e che non cercano un’occupazione, sono circa 12 milioni e rappresentano il 33% della popolazione attiva), si è accentuato negli ultimi anni a causa della crisi demografica e del conseguente invecchiamento della popolazione. Negli ultimi dieci anni, infatti, la popolazione residente ha registrato una perdita cumulata di 1,3 milioni di persone (passate dai 60,3 milioni del 2014 ai 58,9 milioni del 2023) accompagnato dalla brusca diminuzione del numero di persone di età compresa tra i 20 e i 40 anni (-2 milioni), ossia della classe di età cui si rivolge maggiormente la domanda di lavoro espressa dalle imprese. Per contro il numero di individui over 60 è aumentato di quasi 1,6 milioni di unità.
Sulla spinta di queste considerazioni il report CNA arriva a trarre delle conclusioni che rasentano la catastrofe demografica/occupazionale della struttura produttiva e dei servizi. Tale situazione emergerebbe immediatamente dall’analisi dei dati. E cioè che nel 2022 l’espansione dell’occupazione, pur significativa, ha trovato un limite nella ristrettezza dell’offerta di lavoro immediatamente disponibile. Infatti, a fronte delle 5,2 milioni di assunzioni previste dalle imprese, il numero dei disoccupati (ossia di coloro che cercano attivamente una occupazione) risultava pari a 2,1 milioni di unità. In quell’anno si sarebbe registrato dunque un eccesso di domanda di lavoro pari a circa 3 milioni di persone. Si tratterebbe di uno squilibrio che segna un aumento considerevole rispetto al 2019 quando il numero dei posti di lavoro offerti dalle imprese superava quello dei disoccupati di circa un milione.
Si potrebbe obiettare che è discutibile mettere a confronto intenzioni dichiarate dalle imprese con il dato certo di nuove assunzioni in posizioni di lavoro decente. Ma che esista un problema di offerta di lavoro e che vi siano ripartizioni (disoccupati, NEET, posti vacanti, lavoratori irregolari) connotate da platee praticamente analoghe appartiene alla cruda realtà di un mercato del lavoro a cui i sindacati dedicano solo risposte imbarazzate e superficiali.
Giuliano Cazzola