Come previsto, la corsa per la presidenza di Confindustria si è ridotta a due soli candidati: Alberto Vacchi e Vincenzo Boccia. Gli altri due concorrenti, Aurelio Regina e Marco Bonometti, dopo il colloquio con i Saggi di giovedì 10 marzo si sono ritirati. Con modalità però molto differenti.
Regina ha commentato in modo conciliante il proprio ritiro dalla corsa, spiegando che si è trattato di una scelta che lui stesso aveva maturato da tempo, compiuta in nome dell’unità di Confindustria. Non solo: ha annunciato anche che i suoi voti verranno convogliati su Vacchi, inteso come il candidato migliore a rappresentare la prossima Confindustria.
Bonometti invece è uscito sbattendo la porta in faccia all’apparato confindustriale, accusandolo di aver privilegiato l’auto-conservazione a scapito dell’innovazione: “come la peggiore politica”, sono le sue parole. La dura presa di posizione di Bonometti, parzialmente giustificabile con l’irritazione per essere stato escluso dalla partita, contiene comunque anche diverse verità. Per esempio, quando punta l’indice contro alcune regole surreali – come il divieto, per i candidati, di rilasciare interviste ai media durante la campagna elettorale – ma anche altre più sostanziali, a partire dal sistema di elezione del presidente, ridisegnato dalla riforma Pesenti ma rimasto macchinoso e impreciso come e più che in passato. Al punto da aver prima causato una sorta di “ingorgo” di candidati, per poi dimezzarli in gran fretta e senza troppe cerimonie, una volta resisi conto, forse tardivamente, delle conseguenze di un voto in Consiglio generale costretto a dividersi su quattro nomi diversi.
Di certo, se tutti gli aspiranti presidenti fossero stati portati all’esame finale del 31 marzo, ne sarebbe uscita una leadeship debole, con una percentuale di voti ridotta e frantumata su diversi fronti. Per una Confindustria da tempo in cerca di identità e maggiore forza rappresentativa, non sarebbe stato un bene avere un presidente eletto con un 30% dei consensi. Dunque, ben venga lo sfoltimento del gruppo, riportando così il tutto alle modalità già sperimentate del confronto diretto a due: come nel 2000, ai tempi del duello Carlo Callieri – Antonio D’Amato, vinto da quest’ultimo, e come nel 2012, quando Giorgio Squinzi prevalse per un pugno di voti su Alberto Bombassei.
Resta che le due fratture, quella di sedici anni fa e quella del quadriennio scorso, non si sono mai completamente rimarginate, portandosi dietro, anno dopo anno, un lungo strascico di piccole o grandi faide interne. Faide che presidenti dotati di una leadeship forte e carismatica come Luca di Montezemolo avevano potuto ridimensionare, ma che sono invece tornate in auge negli ultimi anni, contribuendo al forte calo di appeal registrato dal sistema confindustriale. Il presidente che succederà a Giorgio Squinzi avrà quindi, innanzi tutto, il compito di ricompattare l’associazione. Compito non semplice. Non e’ un caso che i quattro concorrenti alla presidenza di questa tornata fossero a loro volta espressione di correnti interne, spesso riferibili a un past president, e in forte contrasto tra loro. Se Boccia è considerato il candidato di Emma Marcegaglia e dello stesso Squinzi -rappresentando, dunque, la continuità del sistema di potere degli ultimi otto anni- Bonometti era il “cavallo” sui cui puntava Antonio D’Amato, molto critico nei confronti delle ultime gestioni e intenzionato a stoppare la corsa di Boccia. Vacchi è l’espressione dei grandi gruppi industriali del nord, benedetto da Montezemolo e da tutti coloro, Assolombarda in primis, che vorrebbero una forte discontinuità col passato. Regina, infine, il rappresentante dell’industria dell’Italia centrale, racchiusa nell’Unione di Roma e Lazio: in un primo momento anche con l’appoggio di Luigi Abete, che sarebbe però poi passato ad appoggiare Boccia e che forse, a questo punto, potrebbe schierarsi con Vacchi, o chissà.
A Vacchi oggi viene comunque attribuita la maggioranza dei consensi, da parte sia di espressioni territoriali che di categoria. La partita comunque e’ ancora tutta aperta: il 17 marzo i due candidati rimasti in gara presenteranno al consiglio generale i loro programmi e la formazione della squadra che dovrà accompagnarli: da quel momento in poi gli schieramenti potranno definirsi compiutamente, definendo l’assetto futuro dell’associazione, in vista del voto finale del 31 marzo.
Oltre alla presidenza, sono infatti aperte altre questioni che definire secondarie sarebbe riduttivo: la guida del Sole 24, della Luiss, del Centro Studi, ormai assurto al rango di ufficio studi di valenza europea, a pari grado con quello di Bankitalia. E ci sono anche le sei vicepresidenze con deleghe forti, come da riforma Pesenti, che godranno di una concretissima propria autonomia, mettendo fine (forse) alla Confindustria one-man-show. Ma se su queste “collaterali” di qui al 31 marzo si intreccerà la partita delle alleanze che determineranno il prossimo leader, occorre ricordare però che oggi in gioco c’è, soprattutto, il ruolo futuro di Confindustria.
Attualmente l’associazione svolge più che altro – c’è da dire con successo – il ruolo di lobby, o meglio, di “ufficio legislativo ombra’’ del governo Renzi, avendone curato direttamente le principali riforme, dal Jobs act alla delega fiscale, alla scuola, alla PA. Ruolo più che decoroso, certo, e probabilmente fruttuoso. Ma senza peccare troppo di nostalgia, chi ha seguito la vita dell’associazione negli ultimi decenni ricorda bene il peso che aveva ogni parola di ogni singolo esponente dell’allora Direttivo, l’organismo ristretto dove sedeva il meglio dell’industria nazionale: Agnelli, Pirelli, Marzotto, Lucchini, Merloni, De Benedetti, solo per citarne alcuni. Oggi gli imperi che essi rappresentavano sono scomparsi, o passati di mano, o fortemente ridimensionati. Grandi nomi l’industria italiana non ne ha più, e di conseguenza non ci sono più nemmeno grandi nomi che affollino le riunioni, sempre più routinarie, in Viale dell’Astronomia. Da cui forse escono ottimi disegni di legge per Palazzo Chigi, ma pochissime nuove idee e nessuna illuminata ‘’visione’’ per il paese.
Ciò non toglie che la rappresentanza di quel che resta dell’ex sesta potenza industriale abbia ancora un ruolo da svolgere: in un Italia dove le grandi imprese, quando non scomparse, sono ormai estere, restano però le piccole e medie – spina dorsale del paese e della stessa Confindustria- che ancora sopravvivono, sia pure a stento, dopo un decennio di crisi. E che richiedono una guida, un indirizzo, soprattutto sul tema, irto di incognite, delle relazioni industriali come saranno dopo la crisi – ammesso che un dopo crisi ci sia mai – e nel mondo del lavoro dopo la rivoluzione del Jobs act. Reinventarsi questo ruolo è per l’appunto la grande scommessa che toccherà al prossimo presidente, chiunque egli sarà.
Nunzia Penelope