di Ida Regalia, Dipartimento di Studi del lavoro e del welfare, Università degli Studi di Milano
1. A voler guardare le cose con occhio attento e aperto, e con un pizzico, forse, di ottimismo – ed è bene farlo in una situazione complicata come l’attuale se non ci si vuole condannare allo scetticismo sdegnoso e qualunquista, all’assunto che nulla cambierà, che nulla può cambiare, in meglio – la lettura della parte dedicata a Democrazia e rappresentanza del documento unitario di Cgil, Cisl e Uil per la riforma del modello contrattuale permette di evidenziare alcune note positive – ne vedo in particolare due – accanto a altre meno convincenti, se non potenzialmente negative.
Una prima nota positiva riguarda il fatto stesso che il documento affronti il tema. Può darsi che fosse inevitabile farlo. Può anche darsi che, per i delicati equilibri interni al sindacalismo italiano, intervenire su questa parte fosse la condizione per giungere a un orientamento unitario sull’altra parte, quella relativa al modello contrattuale. Da questo punto di vista non si dovrebbe forse neppure parlare delle due parti separatamente. Chi scrive non ha tuttavia informazioni sufficienti per misurarsi sul terreno della logica di composizione e di equilibrio del documento.
Qui interessa invece sottolineare che è senz’altro una buona cosa che le organizzazioni di rappresentanza, specie quando intendono affrontare una svolta sul piano della strategia, dedichino tempo e attenzione a ripensare alle regole che sono a fondamento della loro legittimità a agire, quelle per cui possono – anzi, devono – prendere decisioni che avranno conseguenze sulle condizioni di vita dei loro rappresentati. Questa attività riflessiva, che non è affatto ovvia e non caratterizza sempre gli orientamenti di tutte le organizzazioni (volontarie) di rappresentanza, è una buona cosa perché è un indice di maturità e di responsabilità; segnala l’interesse a definire criteri e metodi d’azione definiti in anticipo, quindi noti e socialmente condivisi, in base ai quali, come diremo subito, ci si rende disponibili a essere valutati.
L’alternativa infatti non è semplicemente l’incertezza derivante dal non poter far affidamento su regole adeguate. L’alternativa – di cui può anche non esserci piena consapevolezza – è il mettere in conto che, in assenza di regole adeguate condivise, nei fatti, all’occorrenza, ci si baserà soprattutto sulla contrapposizione e sulla misurazione dei rapporti di forza.
Chi si occupa di rappresentanza di interessi subalterni e di relazioni sindacali sa bene che una certa dose di distinzione e di conflitto tra le posizioni delle parti è strutturale e ineliminabile. Ma sa anche bene che i sistemi di rappresentanza e relazioni sindacali migliori e più vantaggiosi per tutti sono quelli in cui il ricorso al conflitto può venire limitato e circoscritto, vale a dire utilizzato soprattutto in occasione di temi e problemi di grande rilevanza. E non perché il sindacato è debole, ma al contrario perché è sufficientemente forte, in quanto legittimato e riconosciuto, sulla base di criteri e regole predefinite, da non rendere necessario esibire ogni volta la consistenza della propria capacità di rappresentanza.
L’elevata informalità dei sistemi, in cui invece, come è largamente avvenuto nel caso italiano per ragioni che non è ora il caso di approfondire, non sono disponibili criteri di misurazione della rappresentatività e metodi legittimi d’azione sufficientemente consolidati, non solo si traduce in costi elevati di funzionamento e diseconomie esterne, ma tende soprattutto a produrre soluzioni meno efficaci e efficienti.
2. Se la prima nota positiva riguarda l’aver messo all’ordine del giorno il tema della democrazia e della rappresentanza, la seconda nota positiva riguarda l’articolazione che viene proposta del tema. Riguarda in particolare il fatto che si indicano criteri e modalità per la misurazione della rappresentatività dei diversi sindacati e che si indicano inoltre norme e principi di riferimento per la formazione delle decisioni più importanti entro il sistema sindacale (nel documento se ne parla come di “democrazia sindacale”).
Sul terreno della rappresentanza, dopo aver confermato le modalità vigenti di accertamento della rappresentatività sindacale nel caso del settore pubblico e il ricorso alle deleghe certificate dagli Enti previdenziali nel caso dei pensionati, vengono per la prima volta precisati unitariamente i parametri per la misurazione della rappresentatività dei sindacati nel settore privato. Si tratta dei due indicatori già utilizzati nel caso del settore pubblico: il numero degli iscritti e il numero di voti ottenuti da ciascuna organizzazione nelle elezioni delle RSU.
Si indicano inoltre l’istituzione responsabile per la certificazione della capacità di rappresentanza e le modalità di rilevazione dei dati. Sul primo punto, l’istituzione responsabile individuata è il CNEL, che si prevede si avvalga di “specifici comitati con un alto profilo di competenza ed autonomia”, e che ci si immagina diventi in futuro l’istituzione certificatrice della rappresentanza e rappresentatività dei sindacati in tutto il modo del lavoro. Quanto alle modalità di rilevazione, nel caso dei dati sugli iscritti si fa riferimento non a forme di autocertificazione, ma a rilevazioni indipendenti. “La base della certificazione sono i dati associativi – si legge – come possono essere numericamente rilevati dall’INPS, prevedendo un’apposita sezione nelle dichiarazioni aziendali del DM10, e trasmessi complessivamente al CNEL”. Nel caso dei dati sui voti ottenuti nelle elezioni delle RSU, che – si precisa – dovranno essere “generalizzate dappertutto”, si rimanda ai consensi risultanti nei verbali elettorali che le confederazioni dovranno trasmettere al CNEL.
I sindacati si rendono dunque disponibili a essere misurati, o, meglio, a far misurare da osservatori imparziali il loro seguito, e quindi a farsi, almeno in parte, valutare. Per dirla in altro modo, è come se introducessero dei sostituti funzionali trasparenti di quel processo di selezione e legittimazione dei rappresentanti che nei sistemi politici di rappresentanza democratici è costituito dalle elezioni generali: processo che non può tuttavia essere semplicemente replicato nello stesso modo nel caso dei sistemi di rappresentanza degli interessi ( ).
Sul terreno dei meccanismi e delle procedure per prendere le decisioni rilevanti all’interno di un sistema pluralista qual è il nostro, il documento offre indicazioni diversificate a seconda che si tratti di “accordi confederali con valenza generale” o di “accordi di categoria”.
In quest’ultimo caso si rimanda agli “specifici regolamenti sulle procedure per i rinnovi contrattuali” che le federazioni di categoria sono tenute a definire e che – si precisa – “dovranno prevedere sia il percorso per la costruzione delle piattaforme che per l’approvazione delle ipotesi di accordo”. Nel caso degli accordi interconfederali, le indicazioni sono, piuttosto ovviamente, un po’ più dettagliate. Soprattutto, viene precisato il ruolo che occorre sia svolto dagli organi direttivi delle confederazioni ai vari livelli.
Pur nella distinzione delle competenze (tra confederazioni e federazioni di categoria), elemento comune è invece l’enfasi che per entrambi i processi decisionali viene posta sulla necessità di prevedere in modo sistematico momenti di verifica e coinvolgimento “degli iscritti e di tutti i lavoratori”, nonché dei pensionati relativamente agli accordi interconfederali di tipo generale. Nel caso di questi ultimi viene inoltre specificato che le ipotesi di accordo vanno sottoposte alla “consultazione certificata fra tutti i lavoratori, lavoratrici, pensionate e pensionati, come già fatto nel 1993 e nel 2007”.
Si tratta dunque della definizione esplicita di regole del gioco a partire dalle quali impostare prassi unitarie e una convivenza costruttiva, e prevenire le tentazioni di colpi di mano nelle relazioni sia tra le organizzazioni sia al loro interno. Allo stesso tempo, come sempre avviene quando si mira a fissare e formalizzare anticipatamente parametri di riferimento per l’azione, a ciò corrisponde anche l’assunzione di impegni condivisi specifici rispetto a ciò che va fatto e, implicitamente, rispetto a ciò che non è (più) lecito fare.
Da un punto di vista di merito, accanto alle procedure di svolgimento della democrazia rappresentativa, vengono confermate e generalizzate le prassi di consultazione diretta dei lavoratori che nel nostro paese hanno caratterizzato in modo originale e positivo il raggiungimento di patti sociali e i momenti di concertazione degli ultimi quindici anni. E la valutazione positiva riguarda il fatto che si tratta di procedure certamente costose – ma la democrazia è nell’immediato costosa – che hanno tuttavia permesso ai sindacati confederali di ravvivare e conservare un maggior grado di contatto e di seguito tra i lavoratori nei momenti delle decisioni critiche di quanto non sia comparativamente avvenuto in altri paesi ( ).
Anche da questo punto di vista, e non solo come canale per la misurazione della rappresentatività delle organizzazioni, diviene dunque indispensabile quell’estensione e generalizzazione delle RSU su cui si chiude il documento.
3. Il limite principale, e a nostro avviso non piccolo, di questa parte del documento sta nell’aver tuttavia evitato di prevedere qualunque regolamentazione, leggera, della tematica per via legislativa. Come viene dichiarato infatti in apertura della sezione, “la riforma della rappresentanza va attuata per via pattizia attraverso un accordo generale quadro”, salvo restando quanto già stabilito nel caso del settore pubblico (e senza peraltro nulla dire su che fare delle norme dello Statuto sulla costituzione delle rappresentanze in azienda).
È vero che realisticamente le circostanze non sono favorevoli a un intervento legislativo sul tema. Chi scrive, avendo fatto parte nel 1993 della commissione che era stata incaricata da Gino Giugni dopo l’accordo di luglio di predisporre una bozza per una legge sulla rappresentanza in azienda e avendo toccato con mano i veti che da più parti – e allora in primo luogo da Confindustria – tale bozza aveva suscitato, non sottovaluta in alcun modo la grande difficoltà di aver successo. Ma è questa la ragione per cui viene apertamente scelta la strada debole e malcerta della via pattizia attraverso un accordo generale quadro?
La prova vivente di quanto questa strada sia debole e inadeguata per il raggiungimento di quel quadro di certezze che i sindacati sembrerebbero invece voler delineare è costituita dalla storia quindicennale delle RSU. Di esse nel documento si scrive “che andranno generalizzate dappertutto, come già regolamentato dall’Accordo interconfederale del 1 dicembre 1993”. E ciò viene appunto a buon ragione detto (e ribadito poi in chiusura), dal momento che nel settore privato le RSU non si sono affatto diffuse come atteso in base all’accordo interconfederale. Si sono al contrario saldamente diffuse nel settore pubblico, in cui la materia è invece regolata dalla legge.
Più in generale, come si può immaginare di affidare a un accordo tra le parti la definizione di un’efficace normativa sulle regole del gioco? In un quadro di sindacalismo pluralista e competitivo, come evitare che, in assenza di deterrenti che non siano unicamente quelli derivanti dal ricorso ai rapporti di forza, i singoli attori si conformino opportunisticamente ai termini del patto solo fino a quando non appaia a loro più conveniente fare altrimenti?
Da questo punto di vista, non si può evitare di osservare sommessamente che il progetto, basato volontaristicamente com’è sulla buona fede e le buone intenzioni, appare alquanto disarmato sul piano dell’attuazione. Un altro limite, minore nell’immediato, ma che potrebbe avere non piccole conseguenze negative in futuro, è quella che potremmo provvisoriamente definire l’eredità di un’impostazione “fordista” nell’immaginare le modalità di accertamento del seguito sindacale e le modalità di coinvolgimento dei rappresentati.
L’impressione, speriamo errata, che si ricava leggendo questa parte del documento è che i sindacati si vedano soprattutto come organizzazioni presenti e radicate nelle aziende tradizionali, in particolare in quelle medio-grandi, caratterizzate dalla centralità di addetti assunti a tempo indeterminato. Lo sviluppo recente e quantitativamente molto significativo di aziende piccole e micro, a rete, diffuse sul territorio e nei servizi, dal personale mobile e assunto con contratti diversificati, per cui nella prima parte del documento si propone la soluzione della contrattazione territoriale, dovrebbe forse richiedere anche in questa parte qualche riferimento appropriato, qualche cenno alla necessità di ideare modalità organizzative e di verifica del seguito adatte a una presenza sindacale, che, se c’è, non può che essere diversa da quella adatta alle aziende maggiori.
È su questi importanti sviluppi in corso che occorrerebbe stimolare l’attenzione degli organismi direttivi delle confederazioni e delle federazioni di categoria, come da tempo emerge nel dibattito internazionale sulle strategie di rivitalizzazione del sindacato, più che – ed è l’ultima osservazione – richiamando un po’ ritualmente a coinvolgere nelle consultazioni “sia gli iscritti che tutti i lavoratori e le lavoratrici”.
Salvo ovviamente che non si pensi che i sindacati non debbano essere legittimati a rappresentare la galassia dei lavoratori fuori standard e delle microimprese, o che in questo caso non occorra loro una verifica di rappresentatività.
4. Un nota bene finale.
Abbiamo visto come questa sezione del documento delle Confederazioni presenti indubbiamente luci e ombre: molte luci importanti e alcune ombre che potrebbero vanificare le prime. Essa non costituisce peraltro che una parte – e nella percezione pubblica probabilmente non la più importante – di una partita più ampia: si tratta quindi di una impegnativa proposta unitaria, che tuttavia nel gioco della trattativa, se essa andrà a buon fine, potrebbe essere anche un po’ modificata. In meglio?
L’augurio è che in questo processo tutti gli attori coinvolti riflettano responsabilmente sull’importanza, sul bene generale di poter disporre di regole adeguate, condivise e effettivamente applicabili per misurare periodicamente la rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori, nonché di norme e procedure chiare e democratiche per la formazione delle decisioni più importanti che i sindacati concorrono a prendere.
NOTE
1) Sul punto mi permetto di rinviare alla mia introduzione al numero monografico su Democrazia sindacale e rappresentatività di Quaderni di Rassegna Sindacale–Lavori, 2005, n. 1.
2) Sull’importanza della combinazione tra concertazione centralizzata e consultazione decentrata democratica di quanti sono interessati dalle politiche, cfr. Lucio Baccaro, “La political economy della concertazione”, Stato e mercato, 2007, n. 1