Ci sono, in giro per l’Italia, un buon numero di strutture ospedaliere che, negli anni passati, sono state chiuse e abbandonate, per lo più per risparmi di bilancio, e non possono essere riconvertite, perché non se ne può cambiare, per motivi legali, la destinazione d’uso. E’ il caso, a Roma, di due ospedali storici come il Forlanini e il S.Giacomo. Nel paese, di tanti ospedali regionali, piccoli e grandi, che, prima, presidiavano il territorio. Andrebbero resuscitati, nell’attuale emergenza sanitaria, che ha mostrato tutte le debolezze del gigantismo e della concentrazione degli ospedali? O è meglio focalizzare gli sforzi sulle strutture esistenti? E, nell’uno e nell’altro caso, chi paga?Il dibattito è aperto e ogni ex ospedale fa storia a sé. L’unica cosa che non si può dire, per una volta, è che mancano i soldi. I soldi ci sono: 36 miliardi di euro. Basta prenderli.
Il dibattito che si è svolto in questi mesi sul Mes, il Meccanismo europeo di solidarietà, è stato surreale fin dall’inizio, ma, nelle ultime settimane, si è trasformato in una genuina piéce del teatro dell’assurdo, che sarebbe piaciuta a Ionesco. Il Mes, contestato da Lega e grillini, esiste infatti da quasi dieci anni, è operativo ed è stato utilizzato per i salvataggi di Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia. Interventi in nome di ricette di austerità molto contestate e che una riforma dello stesso Mes, in discussione lo scorso anno, doveva rivedere e modificare. A torto o a ragione, l’Italia ha bloccato questa riforma. Adesso, però, non di quella riforma si tratta, ma della apertura di una nuova linea di credito. In sostanza, di un nuovo sportello, dove si possono chiedere soldi, senza sottoporsi né a vincoli, né a ricette, alla sola condizione di utilizzarli, “direttamente o indirettamente”, per spese sanitarie, tipo, ad esempio, il rilancio del Forlanini. L’Italia ha detto che questi soldi non li vuole, ma altri paesi sono pronti a prenderli. A che titolo l’Italia può impedirglielo, sbarrando la strada alla nuova linea di credito, perché il Mes, in generale, non le piace? La situazione è a questo punto e vedremo come andrà a finire. Ma, sbarrando la strada a questo Mes2, l’Italia rischia di perdere due occasioni, strettamente legate, una migliore dell’altra.
La prima, ovviamente, sono i 36 miliardi. Utilizzare questo credito consentirebbe di sganciare una cifra analoga del nostro bilancio statale dalla specifica crisi sanitaria e di utilizzarla, ad esempio, per il rilancio dell’economia. Il problema delle risorse complessive da destinare alla lotta contro la recessione che incombe, esiste ed è cruciale. Il governo Conte ha dispiegato finora, in aiuto all’economia, proporzionalmente meno di quanto abbiano messo in campo, ad esempio, Francia e Germania. Il prossimo Decreto Aprile, probabilmente, ridurrà questo gap ed è già in cantiere un decreto per maggio. Entro l’estate, insomma, le risorse mobilitate dal governo contro la crisi supereranno, probabilmente, i 100 miliardi. Il disavanzo, sommato a quello che era già previsto per il 2020, supererà il 7-8 per cento del Pil e arriverà, forse, al 10 per cento, che è del resto, la quota di deficit pubblico che la maggior parte degli analisti prevede, in quest’anno di emergenza, in generale per l’eurozona. Insomma, tutto, nell’eccezionalità del momento, normale. Ma l’Italia, con un debito pubblico già al 135 per cento del Pil, non è un paese normale. Aumentare il disavanzo al 10 per cento significa proiettare il debito al 150 per cento e oltre. Ce lo possiamo permettere?
La risposta è sì. Con i 36 miliardi del Mes sarebbe più facile, naturalmente. Senza, però, il sentiero si fa stretto, ma ancora percorribile. Grazie alla Bce. La banca centrale europea si è sostanzialmente impegnata a comprare 220 miliardi di euro di titoli pubblici italiani, quest’anno. In sostanza, è pronta ad assorbire il debito in più di cui l’Italia avrà bisogno quest’anno. L’Osservatorio dei conti pubblici di Carlo Cottarelli ha calcolato che, anche se il debito viaggiasse oltre il 150 per cento, la quota in mano al mercato non si muovebbe di molto: dal 112 al 119 per cento. Il resto sarebbe in mano a istituzioni europee. E, poiché la Bce, finora, dal 2012, quando ha iniziato a rastrellare titoli pubblici, li ha sempre rinnovati alla scadenza, l’Italia potrebbe continuare a contare sul fatto che un quarto del suo debito pubblico, di fatto, non esiste, nella versione più moderna del tradizionale “stampar moneta”.
Ma, fino a quando? I segnali di fumo che vengono dai mercati non sono rassicuranti. Nel giro di pochi giorni, la scorsa settimana, il Financial Times ha pubblicato due articoli che mettono in dubbio la tenuta dei conti italiani. La Bce, prima o poi – si argomenta – potrebbe decidere di rientrare e liquidare i titoli, magari sotto la pressione dell’opinione pubblica tedesca. In vista di questo rischio, le agenzie di rating potrebbero essere spinte a tagliare il voto dell’Italia, gli investitori potrebbero chiedere interessi sempre più pesanti, avviando una spirale che renderebbe il debito italiano sempre meno sostenibile. Le munizioni attuali della Bce, i mille miliardi di euro appena messi in campo, dicono i due articoli, potrebbero non bastare. Verosimile? Probabilmente, no. Ma l’esperienza insegna che i mercati si muovono, spesso, anche per ombre più inconsistenti di queste.
Ed ecco dove viene buona la seconda cruciale opportunità offerta dal Mes. La Bce, infatti, (è l’originario bazooka di Mario Draghi) è impegnata a difendere, senza vincoli o limitazioni di sorta, il debito di un paese che ha fatto ricorso al Meccanismo europeo di solidarietà. Una polizza di assicurazione che vale anche più dei 36 miliardi.
Maurizio Ricci