“Innovare e umanizzare la trasformazione in atto”. È questa la rotta indicata da Riccardo Saccone nel suo primo discorso da neo eletto segretario generale della Slc-Cgil. Le Tlc, spiega, sono il motore della digitalizzazione per tutto il paese, ma un motore molto spesso assente, privo di politica industriale, investimenti, ricambio delle competenze, che sta vivendo un cambio di paradigma senza precedenti.
Saccone come stanno le Tlc in Italia?
Il nostro è il settore che abilita ala transizione digitale, per le imprese e la società tutta. È il settore che può agganciare il paese al futuro. Dunque le potenzialità sono molte, ma questo non fa che accrescere il rammarico. Il comparto è stato svalutato, perché visto solo come erogatore di servizi, ed è stato vittima di una logica al ribasso, dovuta alla concorrenza spietata tra gli operatori. Il basso valore aggiunto e le perdite di un miliardo all’anno di ricavi che il comparto registra da oltre dieci anni impediscono gli investimenti nei dati, nelle piattaforme, nell’innovation tecnology. Si tratta di realtà nuove, che a volte non sono identificabili nei confini contrattuali che conosciamo. E questo è un elemento sfidante per il sindacato.
E il pubblico è presente?
In tutto questo è lampante l’assenza di una politica industriale degna di questo nome. In gioco ci sono tecnologie che hanno risvolti sociali significativi, e se non governiamo la trasformazione in atto ci ritroveremo con pochi che potranno godere dei benefici e con molti che, invece, ne saranno esclusi. Il governo parla di voucher per incentivare il consumo, ma il problema è far arrivare la rete. E anche sul fronte legislativo navighiamo a vista perché il Fondo nuove competenze e il contratto di espansione non sono stati finanziati. La transizione in atto non si può governare solo in modo conservativo, senza investire sulle competenze e la formazione. Le aziende sono indebitate, sottocapitalizzate, e assistiamo a una riduzione dei perimetri occupazionali. Questo causa anche una scarsa appetibilità del settore nei confronti dei giovani.
Come valuta lo scorporo della rete da Tim?
Per noi è uno scempio ma, paradossalmente, visto lo stato nel quale versa l’azienda è il male minore. Ragionando con una logica costi-benefici il privato potrebbe essere non interessato a portare la rete ovunque, privando intere aree di un servizio di cittadinanza. La domanda che dobbiamo porci è se questa è una tecnologia come le altre o equivale a una nuova elettrificazione del paese. Se è così bisogna fare come nel ’62, quando si passò a un gestore unico che si impegnò a portare quel servizio ovunque, perché indispensabile per lo sviluppo del paese.
La convince l’operazione che Fastweb e Vodafone stanno portando avanti?
Se si esclude la possibile riduzione occupazionale in Vodafone sì. È un progetto che rimette al centro l’industria e che immagina un ruolo per l’azienda, che non si limita a erogare servizi telefonici all’ingrosso.
A che punto siamo sulla frontiera dell’intelligenza artificiale?
Ho la sensazione che siamo ancora ai principi generali. Va bene l’approccio etico, ma dopo l’etica serve la gestione. Non ci vuole molto a capire che l’intelligenza artificiale avrà un impatto fortissimo sul mondo dei customer care. Questo non vuol dire che i call center scompariranno, ma di certo si trasformeranno, e quel perimetro occupazionale che sino a oggi abbiamo difeso verrà meno perché stiamo parlando di servizi fortemente esposti all’obsolescenza tecnologica. E qui il punto non è solo contrastare il dumping contrattuale ma, soprattutto, alzare il valore aggiunto di questi lavoratori attraverso la formazione.
Come sta il nostro servizio pubblico?
Purtroppo per noi la Rai sta messa malissimo. Se leggiamo l’articolo 5 dell’MFA, il Media Freedom Act comunitario, che parla di indipendenza e trasparenza del Cda, certezza del finanziamento, ci accorgiamo che non c’è nulla di tutto questo. Ancora non sappiamo quanto ammonterà il canone per l’anno prossimo e come verrà riscosso. Io non penso che la Rai debba diventare una digital media company come Netflix o Amazon, ma deve poter pianificare il proprio futuro e ora non è in grado di farlo. Questa fragilità, dovuta alla connessione con la mutevolezza dei cicli politici, noi l’abbiamo denunciata sin dalla riforma Renzi del 2016. La Rai è un’azienda che sta morendo, che non guarda al futuro e alla complessità della società attuale.
Sulla vendita del 10% di Poste il governo sembra aver fatto un passo indietro. Come legge la vicenda?
Cedere il 10% di Poste è una follia, perché la cifra che il governo sperava di ottenere dalla vendita, all’incirca due miliardi, è nulla rispetto all’ammontare del debito pubblico ed è irrisoria per finanziarie qualsiasi misura da inserire nella legge di Bilancio. Poste è la prima azienda del paese. Ogni anno stacca cedole milionarie per l’erario, ricopre un ruolo di democrazia economica grazie a Cassa depositi e prestiti, e rappresenta un presidio nei territori. Il governo ha fatto un piccolo passo indietro, ma anche qui è l’ennesima prova che manca un progetto.
La Cgil ha da poco superato le 500mila firme per i referendum. Come si declinano i quesiti referendari nella categoria che rappresentate?
Negli ultimi trent’anni il lavoro ha perso valore, e questo lo abbiamo visto anche nei nostri settori. È in questa perdita di valore che si inseriscono i quesiti referendari promossi dalla Cgil. Inoltre la nostra categoria e la confederazione si sono mosse sempre con grandissima unità di intenti, perché non solo difendiamo chi rappresentiamo ma anche gli interessi del paese.
Visto che si parla molto di governo delle trasformazioni, e nel vostro settore più che altrove, la partecipazione potrebbe essere uno strumento utile?
C’è prima di tutto un problema di democrazia sindacale. L’urgenza si chiama legge sulla rappresentanza, perché non è più tollerabile avere oltre 900 contratti al Cnel, moltissimi dei quali comprimono diritti e salario. Poi sulla partecipazione bisogna capire come declinarla. I consigli di sorveglianza possono essere una soluzione interessante, ma non vedo molto positivamente la forma di partecipazione che è in Rai. Ma come prima cosa dobbiamo capire chi rappresentano realmente le sigle sindacali e datoriali che si siedono ai tavoli negoziali.
Tommaso Nutarelli