Se per molto tempo abbiamo pensato al rider come a un giovane studente universitario che svolge questo lavoro in modo saltuario, per avere qualche soldo in più in tasca, i dati forniti dal Comune di Milano e dal Dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università Statale ci offrono un quadro del tutto diverso.
Nel capoluogo lombardo e nel suo hinterland sono circa 3mila i ciclofattorini. La ricerca, condotta attraverso lo strumento dell’intervista, si è concentrata su un campione di 218 individui.
Il primo dato che emerge è l’elevata presenza di stranieri, pari al 66% del totale degli intervistati, che, prevalentemente, sono originari dell’Africa (40%), seguiti dagli asiatici (15%). Gli italiani sono una relativa minoranza, pari al 34%. La figura del rider/studente è molto bassa. Infatti, solo il 15% degli intervistati segue un percorso di studi.
Dall’indagine è emerso come il riding costituisce la fonte primaria della loro remunerazione, che viene data o in base ai chilometri o alle consegne, con situazioni molto precarie dal punto di vista lavorativo e dei diritti.
I contratti sono, solitamente, di breve durata, reiterati nel tempo e molto spesso poco chiari e trasparenti. Il rider è dunque un lavoratore pseudo-autonomo, con tutele esternamente precarie e limitate.
L’indagine, infatti, denuncia una forte asimmetria informativa tra i lavoratori e la parte datoriale, con situazioni anche di moral hazard, che si traducono in un abuso della posizione dominante da parte dei datori. La stessa opacità si riscontra anche nei contratti, soprattutto quando si fa riferimento alle coperture assicurative, che sono limitate o assenti. Inoltre il rapporto di lavoro può essere interrotto in qualsiasi momento.
Tutto questo comporta una situazione di significativa debolezza per i lavoratori. Per gli stranieri un ulteriore ostacolo che si aggiunge è la poca conoscenza della lingua italiana. C’è dunque una difficoltà oggettiva a organizzare forme di tutela, vista anche la diffidenza nei confronti del sindacato. Questo genera forme di aggregazione informale, attraverso le quali i rider si forniscono aiuto reciproco, soprattutto per una maggiore dimestichezza con l’italiano o su come muoversi in città.
Le condizioni di lavoro cambiano a seconda dalla piattaforma di riferimento, ma, generalmente, i rider usano i propri mezzi per svolgere la mansione, con biciclette o scooter. L’attrezzattura fornita dalle aziende è molto spesso scadente, e non sono contemplati percorsi formativi per il personale. Per quanto riguarda le ore settimanali, più della metà dei rider sta tra le 30-49 ore, anche se il 30% va ben oltre le 50.
Dunque, spiega la ricerca, tre sono le aree d’intervento sulle quali ci si dovrebbe confrontare: un’assistenza legale e sindacale per la parte contrattuale, percorsi di formazione sulla lingua italiana e il codice della strada e avere dei contratti più omogenei e trasparenti.
Tommaso Nutarelli