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Home - Inchieste e Dibattiti - Call center, inferno o paradiso? Il caso Vodafone - Nel deserto dei diritti

Nel deserto dei diritti

20 Maggio 2010
in Call center, inferno o paradiso? Il caso Vodafone

Emblema della precarietà contemporanea, della logica del job and call e dell’interinale, del lavoro  a progetto -soprattutto giovanile ma non solo- che azzera i costi di produzione. Testimonianza spesso dello sfruttamento dei lavoratori, anche altamente scolarizzati, che vengono impiegati a basso costo in spregio dei loro diritti e sottoposti alla politica dell’usa e getta. Quint’essenza del part time non sempre gratificante a cui accedono in particolare le donne in un paese che certo non si contraddistingue nel sostegno alle politiche pro maternità. Volto reale della delocalizzazione e della esternalizzazione, soprattutto nei paesi dell’Est ma anche in Africa o in Sud America, dove vengono predisposti i servizi di back office e di customer care (a cui si lega il 30% degli stipendi di chi vi lavora), perché la “manodopera” costa meno e il sindacato non ha forza, quindi le aziende risparmiano sul lavoro senza il laccio dei diritti. Esempio concreto di gestione finanziaria dissennata che tenta di spolpare realtà occupazionali importanti attraverso cessioni di rami d’azienda che in realtà sono solo tattiche formali per ondate di licenziamenti e tagli di teste, che si susseguono operando speculazioni che in alcuni casi meriterebbero l’attenzione della magistratura e della Consob.

Esiste nel settore dei call center una selezione innaturale tra le imprese: scompare chi sta alle regole, chi tenta di coniugare alta qualità del servizio con il rispetto dei diritti minimi di chi lavora, mentre nei tempi medio lunghi rimarranno sul mercato quelle imprese che considerano la motivazione, il senso di ciò che si fa, il riconoscimento del merito ingredienti fondamentali per dare valore al lavoro, creando così una connessione tra lavoratore e impresa.

Quanti volti – purtroppo in maggioranza negativi- assume il call center in Italia, pur essendo un prezioso bacino occupazionale che andrebbe al contrario sostenuto perché diventi fonte stabile di lavoro qualificato dove i diritti e i doveri siano la stella polare di riferimento? Quanta responsabilità riveste l’amministrazione -locale e nazionale, politica e istituzionale- nel legittimare questa distorsione che si realizza nei call center? Perché anche la committenza pubblica o le aziende partecipate dallo Stato in tanti, troppi casi appaltano servizi inseguendo la logica delle gare e delle offerte al massimo ribasso, chiudendo quindi gli occhi di fronte alle denunce dei sindacati rispetto al dumping e allo sfruttamento del lavoro. Quanta colpa hanno le grandi compagnie telefoniche come Telecom, Wind, H3G, Fastweb, Bt Italia e Sky in questa deregulation che coinvolge il destino di tantissimi lavoratori? E quanto sono dannose le esternalizzazioni che si praticano, sfruttando il sistema di matrioske in cui ruoli di comando e responsabilità dirigenziali diventano indistinguibili, cosicché nessuno risponda mai di un licenziamento, di una violazione della legge e delle norme sindacali, di un errore industriale? E le scatole cinesi che sono state attuate con cessioni ripetute, come nel caso di Eutelia e Agile, quanto hanno danneggiato i lavoratori e gli azionisti e quale rispetto della legge hanno visto? Non a caso ben quattro tribunali stanno operando sul caso ex Eutelia. Da tempo le organizzazioni sindacali e gli stessi lavoratori denunciano questo deserto del diritto che i call center sono diventati nel nostro paese, mettendo in luce come da questo settore possa arrivare nel prossimo futuro, con il maturarsi della crisi, una ondata di licenziamenti imponente per via della necessità di abbattere i costi. Un allarme verso un “bagno di sangue” sociale realizzato attraverso meccanismi prima citati (esternalizzazioni e cessioni) con la scusa di far fronte ad una presunta contrazione dei guadagni che, in verità, non si registra: il settore continua a vedere un trend di crescita in termini di profitti e liquidità perché si attua la concorrenza sleale abbattendo fino quasi a zero il costo del lavoro.

Oggi è necessario arrivare ad una prima fondamentale conclusione: il massimo della deregolamentazione, privando le persone di sicurezza e motivazione, porta alla crisi dell’azienda perché ci sarà sempre qualcuno nel mondo che è nelle condizioni di lavorare a più basso costo. Di conseguenza è la qualità e l’alta professionalità a fare la differenza, a creare profitto per l’impresa dando il giusto valore al lavoro.

Resta aperta allora la sfida di trasformare tale realtà occupazionale in una frontiera di impiego stabile e qualificato, che garantisca anche il cliente nel momento stesso in cui garantisce chi vi lavora. Favorire insomma le aziende che assumono a tempo indeterminato (5 o addirittura 10 anni per godere degli sgravi contributivi previsti dalla Legge 407/90) e che non attuano il dumping con offerte al massimo ribasso contraendo all’inverosimile il costo del lavoro. Si deve poi pensare ad una fiscalità diversa e più seria, come dimostra il caso dell’Irap che, almeno attualmente, va a colpire e punire le aziende che assumono stabilmente. Perché non pensare ad abbattere questa aliquota per tutte le aziende con costi del personale superiore al 60% del proprio conto economico? Infine resta da trovare, ed è la sfida più complessa,  la strada giusta per un valido modello di flessibilità che riesca a contemperare il rispetto dei diritti di chi lavora con le esigenze di un settore che di fatto, molto più di altri, è esposto a picchi imprevedibili tanto di crescita quanto di contrazione del mercato.

E’ su questa frontiera che si costruisce il nuovo welfare in Italia: flessibilità di impresa e copertura retributiva-contributiva per i lavoratori. Appare necessario, dunque, garantire questo patrimonio occupazionale, che offre possibilità a moltissimi giovani lavoratori, ed evitare che si ripetano casi come Phonemedia, Agile-Eutelia-Omega oppure il recente scandalo del Call center connection. Su tutto questo del resto si sta concentrando l’attenzione della magistratura: nel primo caso, dopo il commissariamento aziendale, si sta cercando di accertare le responsabilità dirigenziali in merito a passaggi di proprietà fittizi; nel secondo il reato che si profila è truffa ai danni dello Stato in merito all’uso illecito dei fondi comunitari. Ad ogni modo il minimo comune denominatore appare essere il ruolo di amministrazioni speculatrici che hanno scaricato il peso della propria irresponsabilità gestionale sulla vita di centinaia di lavoratori. Cessioni di rami d’azienda falsi e passaggi fittizi di proprietà, che hanno consentito di scaricare i debiti accumulati facendo fallire le aziende e licenziare i lavoratori a costo zero, vanno contrastati e puniti. Si deve vigilare sul corretto uso dei finanziamenti comunitari: va evitata la pratica illecita di società create ad hoc che inaugurano call center destinati al fallimento per sfruttare il denaro europeo, non pagando ovviamente né stipendi nè Tfr e non rinnovando alcun contratto, fino ad arrivare alla chiusura definitiva. Garantire questa realtà importante del lavoro, questo mondo professionale che vede coinvolti centinaia e centinaia di destini umani, in un passaggio critico per l’economia del Paese, è un obiettivo irrinunciabile per la politica e il sindacato, così come di tutte le parti sociali. Perché i call center non abbiano il volto della cinematografia di Paolo Virzì, purtroppo raffigurazione reale e veritiera di una vita al telefono all’ombra del diritto.

Maurizio Zipponi, responsabile nazionale lavoro-welfare, Italia dei Valori

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