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Home - Inchieste e Dibattiti - Call center, inferno o paradiso? Il caso Vodafone - Il nuovo Far West dove chi rispetta le regole viene penalizzato

Il nuovo Far West dove chi rispetta le regole viene penalizzato

13 Maggio 2010
in Call center, inferno o paradiso? Il caso Vodafone

Sono l’ultima “catena di montaggio” e per anni hanno rappresentato un’occasione di lavoro – molto spesso precario – per giovani e disoccupati. Oggi i call center vivono un momento di grave difficoltà. La crisi economica e i tagli alla spesa pubblica hanno spinto aziende ed enti pubblici a forti contenimenti  di costi e ad affidare le commesse allo strumento dell’appalto al massimo ribasso, cioè a chi fa pagare di meno il servizio. Risultato, tutti o quasi in difficoltà. Con le aziende “virtuose” – quelle che hanno rispettato le norme e hanno messo in regola i loro dipendenti con l’assunzione a tempo indeterminato – a star peggio. Costi troppo elevati per reggere la concorrenza (sleale) di chi si avvale di collaboratori a progetto o fa ricorso al lavoro nero.  Secondo le stime del sindacato di categoria della Cgil, sono più di 20mila i posti di lavoro a rischio nei call center.

Ma come si è arrivati a questa situazione? Credo giovi fare un passo indietro e dare un’occhiata all’evoluzione del quadro normativo che ha interessato il settore.  

Nel giugno 2006, da poco nominato ministro del Lavoro, ho emanato una circolare – la numero 17 – nella quale venivano stabiliti i limiti entro i quali era possibile far ricorso ai contratti di collaborazione nell’attività dei call center (nel gennaio del 2008 verrà emanata una seconda circolare specificatamente dedicata alla attività outbound). E’ stato il mio primo provvedimento. L’ho fatto per un motivo molto semplice e per nulla ideologico. La Legge Biagi – spesso citata ancor oggi a sproposito da detrattori e sostenitori – aveva previsto per il settore privato la trasformazione della collaborazione coordinata e continuativa (quella dei co.co.co. di antica memoria) in lavoro a progetto. Una scelta che limitava la possibilità di utilizzo, da parte dell’impresa, di questa forma di lavoro e riconosceva agli stessi lavoratori maggiori diritti. Io non ho fatto che dare applicazione a questa norma.

La circolare disponeva che le attività inbound – in pratica la ricezione delle chiamate – fossero effettuate da lavoratori dipendenti, mentre quelle outbound – cioè le chiamate in uscita dal call center – potevano essere lasciate ai collaboratori “a progetto”, a condizione che fosse dimostrabile la loro effettiva autonomia nello svolgimento dell’attività.

Per favorire l’attuazione della circolare nell’interesse dei lavoratori, la Finanziaria 2007 ha poi previsto delle agevolazioni di durata triennale (comprese esenzioni e sconti nel pagamento dei contributi) per quelle aziende che avessero deciso di sanare la posizione del personale assunto con contratto a progetto.

A sollecitare l’intervento del ministro in quel settore era stato anche il caso di Atesia. Un caso che si trascinava da sette o otto anni con risvolti sociali insostenibili. Un’ispezione ministeriale aveva in quei mesi evidenziato la presenza in azienda di moltissimi lavoratori, dipendenti a tutti gli effetti, che figuravano da anni (in alcuni casi anche 15) come lavoratori a progetto.

Certo, i call center erano (e per certi versi sono ancora) anche un luogo simbolico. Tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila hanno visto una crescita impetuosa e hanno rappresentato una sorta di nuovo Far West del lavoro, senza diritti o con diritti non riconosciuti e con ritmi di lavoro stressanti. Anche per questo qualche sociologo, andando con la memoria ai tempi del boom economico, ha parlato di “nuove catene di montaggio”. E poi hanno una particolarità che non ha eguali nel mondo del lavoro italiano: i loro impiegati sono soprattutto giovani (età media attorno ai trent’anni); presentano una fortissima prevalenza femminile (circa il 70 per cento); registrano una preparazione scolastica alta (sono tutti diplomati o laureati) e, per rispondere alle esigenze dei clienti, richiedono specializzazioni sempre maggiori e complesse. Anche questo ha contribuito a far sì che intervenissi con tempestività.   

Risultato: circolare, incentivi e ispezioni, che nel frattempo si erano intensificate, hanno portato alla regolarizzazione di circa 24mila persone su un totale di 45mila collaboratori a progetto presenti in quelle aziende. Poi il governo Prodi è caduto, il centrodestra ha vinto le elezioni e al ministero del Lavoro è arrivato Maurizio Sacconi. Il nuovo ministro ha emanato a fine 2008 un’altra circolare in base alla quale gli outbound potevano legittimamente rimanere “a progetto” e ha dato indicazioni perché le ispezioni nei call center non fossero più da ritenersi prioritarie. Nel frattempo le agevolazioni previste nella Finanziaria 2007 a favore delle aziende  sono scadute e il governo non le vuole più rinnovare.

Conseguenza, gli altri 20mila operatori inclusi nella regolarizzazione ora rischiano di perdere il posto e le imprese che hanno continuato a operare utilizzando lavoratori precari o, addirittura, in nero si fanno sempre più aggressive sul mercato. Il paradosso è che chi ha provveduto alla regolarizzazione dei propri dipendenti – è il caso di Teleperformance e Atesia – ha l’acqua alla gola, mentre i committenti ricorrono sempre più spesso ai servizi forniti a buon mercato anche da imprese che operano all’estero, Albania e Romania su tutti.

Per fronteggiare questa situazione, credo vadano operate con urgenza, da parte di governo e parlamento, scelte precise. Primo obiettivo, evitare la concorrenza sleale e il dumping sociale. La via da seguire è chiara. I committenti, pubblici e privati, devono anzitutto abbandonare la pratica degli appalti al massimo ribasso, che impedisce nei fatti che le retribuzioni versate dalle imprese corrispondano ai minimi contrattuali nazionali, mentre gli ispettori ministeriali devono riprendere la strada dei controlli verso quelle aziende “del sottoscala” che utilizzano il lavoro a progetto o, ancora peggio, il lavoro nero.

Questo però non basta. Il settore, come gli altri, ha bisogno anche di interventi di politica industriale, quali la diminuzione dell’incidenza dell’Irap sul costo del lavoro, l’introduzione di incentivi fiscali o la trasformazione di quelli esistenti: ci sono incentivi, come quelli della legge 407, che sono triennali. Meglio che siano più bassi ma strutturali e che diminuiscano il costo del lavoro quando il rapporto è a tempo indeterminato. Mentre un ruolo importante può avere il rilancio dell’attività della commissione di monitoraggio composta dalle parti sociali. La “catena di montaggio” degli anni duemila non ha un ruolo marginale nella nostra economia. Non siamo più al call center di prima generazione. Le aziende che hanno regolarizzato i lavoratori, sostenendo  costi più alti, hanno anche elevato la qualità del servizio ai clienti e, di conseguenza, la qualità del lavoro prestato. Di questo non ci si è ancora appieno resi conto. Il governo, con l non scelte, si rende responsabile del ritorno alla precarietà di decine di migliaia di giova, nonostante il fatto che, a parole, si dichiari paladino del lavoro.

Cesare Damiano, ex ministro del Lavoroe e responsabile lavoro Pd

 

 

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