Lo spread non era così basso dal 2008, le agenzie di rating dopo anni di bocciature promuovo l’Italia, l’establishment e il potere romano corrono a baciare la pantofola di Giorgia Meloni alla festa di Atreju. E tutti, a cominciare dalla premier, celebrano la “stabilità” e la “governabilità”. Ma per il Belpaese non sono solo ricchi premi e cotillon. Anzi. Il governo di centrodestra in politica estera balbetta. A tratti è paralizzato. Si vive, insomma, il paradosso di una stabilità immobile. O quasi.
Il caso più eclatante avvenuto negli ultimi giorni è stato sul dossier armi all’Ucraina. Martedì 2 dicembre Matteo Salvini è riuscito nella grande impresa di costringere Meloni a cancellare dall’ordine del giorno del Consiglio dei ministri il decreto che autorizza il governo (per un anno) a inviare aiuti militari a Kiev. “È prematuro. È in corso una trattativa di pace ed è meglio aspettare”, ha tuonato il segretario leghista. E Meloni, che da tempo deve fare i conti con quella che lei stessa chiama “stanchezza dell’opinione pubblica”, ha abbozzato. Salvo poi dichiarare urbi et orbi: “La nostra linea non cambia. Fino a che ci sarà la guerra continueremo a sostenere Zelensky e ad aiutarlo contro l’aggressione di Mosca”. E poi ha minimizzato: “Il decreto? C’è tempo fino a fine anno per vararlo. Nessun problema. Si farà al momento opportuno”. Peccato che dopo pochi minuti Salvini abbia fatto filtrare: “Se diremo sì? Ne parliamo tra venti giorni. Dipenderà dal contesto, ad esempio dallo sviluppo delle inchieste di corruzione…”. Chiaro (e per certi versi legittimo) il riferimento del leader leghista allo scandalo che ha spazzato via molti collaboratori del presidente ucraino, compreso il suo braccio destro Andriy Yermak.
Ebbene, ai tempi della Prima Repubblica o quando la politica era una cosa più seria, non infettata dal populismo e dalla propaganda cieca, una situazione del genere avrebbe potuto innescare una crisi di governo. Ma Giorgia è così forte e così “stabile” che tutti sono corsi a far finta di niente.
Stesso schema, sulla questione dell’acquisto di armi dagli Stati Uniti da girare poi a Kiev. Meloni, che ama celebrare la sua amicizia con Donald Trump, è corsa con entusiasmo a firmare il Prioritized Ukraine Requirements List (Purl), il piano americano che è una sorta di lista della spesa. E che suona più o meno così: volete aiutare Kiev? Bene, ma dovete comprare le nostre armi e saremo poi noi a darle a Volodymir Zelensky.
Il ministro della Difesa Guido Crosetto, un tipo pratico che per andare a risultato è pronto a farsi prendere per il collo da The Donald, è corso a dire sì. E aveva anche fissato l’11 novembre come data del viaggio a Washington, dove avrebbe incontrato il segretario alla Difesa Pete Hegseth. Peccato che anche questa volta Salvini si è messo di traverso. Ha cominciato a dire: “No, le armi no. Io voglio la pace”. E Crosetto, decisamente irritato, ha cancellato il viaggio: “Cosa vado a dire agli americani? Che li abbiamo presi in giro?!”. Conclusione: l’Italia ha sospeso il Purl. Poi si vedrà.
Non è finita qui. Da sempre il centrodestra dice “no” al Mes, il Meccanismo europeo di stabilità noto come Fondo Salva Stati. Un serbatoio con una capienza complessiva di 704 miliardi, di cui solo 80 effettivamente versati. E di questi circa 14,3 miliardi ce li ha messi l’Italia. Un “no” ideologico che ha finora paralizzato il Fondo, basato sull’assunto che il Paese che ricorre al Mes potrebbe essere in qualche modo commissariato delle istituzioni europee. L’Italia è infatti l’unico Stato europeo a non aver ancora ratificato il trattato istitutivo e senza il “sì” di tutti, il Meccanismo di stabilità non può diventare operativo. Ebbene, vista la situazione decisamente complessa, la Commissione Ue è tentata di usare il Mes come strumento di garanzia per poter attingere agli ormai famosi asset russi. A quei 200 miliardi circa targati Mosca, detenuti nei forzieri della società belga Euroclear, indispensabili per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina. E se il vicepremier Antonio Tajani già dice sì: “E’ uno strumento utile”. Meloni ci pensa: sarebbe un modo per non scucire soldi contanti con cui aiutare Zelensky. Salvini, ancora una volta, alza le barricate: “Mai e poi mai daremo il nostro assenso”.
La colpa delle capriole e degli imbarazzi della politica estera italiana non è però solo del segretario leghista. Giorgia ci mette del suo. E lo fa con un certo impegno. Ossessionata dalla voglia di tenere viva e salda l’amicizia con Trump, a dispetto dell’inaffidabilità, imprevedibilità, ostilità verso l’Europa ormai conclamate del partner, Meloni non fa nulla che possa irritare l’energumeno di Washington. Così, mentre a Ginevra nell’ultimo week-end di novembre i diplomatici di massimo grado di Usa, Ucraina, Francia, Germania e Gran Bretagna si sono incontrati per riscrivere il piano di 28 punti dettato dai russi a Steve Wilkoff (l’immobiliarista elevato dal presidente Usa a missionario di pace), la premier italiana ha pensato bene di spedire in Svizzera solo il suo consigliere diplomatico Fabrizio Saggio. E la cosa si è notata.
Come si è notato, e si nota, che Meloni è sempre titubante e algida quando si tratta di partecipare alle riunioni dei Volenterosi, il gruppo di oltre trenta Paesi schierato a sostegno di Kiev dal francese Emmanuel Macron e dal britannico Keir Starmer. La ragione: Giorgia teme di innervosire Trump. In quel consesso, infatti, c’è chi osa dire la verità: The Donald ha ormai fracassato l’Occidente, ha spappolato l’Alleanza atlantica, dunque l’Europa e i suoi alleati devono imparare a cavarsela da soli. È innegabilmente l’evidenza. Ma Meloni, populista e sovranista come Trump, ha paura di rompere il cordone ombelicale. Di ripudiare il padre. Da qui il rosario di ambiguità dell’underdog della Garbatella che ha dato il meglio di sé quando Trump, venerdì scorso, ha detto che l’”Europa rischia il declino”, verrà “cancellata” e ha confermato il disimpegno Usa dalla Nato. E cosa ti fa Meloni? Mette a verbale: “Il rapporto con gli Stati Uniti è saldo, non si è incrinato”.
Roba da cadere nel ridicolo. Tranquilli, però, l’Italia è un Paese a “stabilità” e “governabilità” certificate. Da capire se stabilità e governabilità, in questo contesto, sono utili agli italiani.
Alberto Gentili




























