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Home - Approfondimenti - Analisi - Ilva, ecco cos’è il Comma 22 alla tarantina

Ilva, ecco cos’è il Comma 22 alla tarantina

di Fernando Liuzzi
25 Settembre 2019
in Analisi
Ilva, ecco cos’è il Comma 22 alla tarantina

Sembra che il mese di settembre sia il mese fortunato per lo stabilimento siderurgico di Taranto. L’anno scorso, ovvero nel 2018, proprio in settembre fu raggiunto l’accordo fra Governo, sindacati e ArcelorMittal che consentì alla più grande acciaieria d’Europa di trovare un nuovo proprietario: non più l’Ilva in Amministrazione straordinaria ma, appunto, il colosso franco-indiano, ovvero il più grande produttore di acciaio del pianeta Terra. Insomma, il compratore che avrebbe potuto assicurare a una simile acciaieria un futuro, non vogliamo dire privo di ostacoli, ma, almeno, credibile.

Quest’anno, per ben due volte, mentre nubi scure, portate da venti di origine diversa, erano tornate ad addensarsi proprio su questo futuro, il mese di settembre ha portato notizie abbastanza buone da mettere in fuga almeno parte di tali nubi.

Il primo scampato pericolo, di cui il Diario si è già occupato, è quello reso possibile dal decreto legge approdato sulle colonne della “Gazzetta Ufficiale” mercoledì 4 settembre. Un provvedimento, questo, che, correggendo quanto disposto da un articolo del cosiddetto decreto “Crescita”, tornava a offrire una sorta di scudo legale volto a proteggere i dirigenti di ArcelorMittal da eventuali accuse connesse alle attività volte all’attuazione del Piano ambientale.

Perché scampato pericolo? Perché già in luglio l’Amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, Matthieu Jehl, aveva avvertito tutti gli interessati che, qualora le tutele legali  – che, in base al decreto Crescita, sarebbero state cancellate a partire dal 6 settembre  – non venissero in qualche modo ripristinate, l’Azienda franco-indiana si sarebbe vista costretta ad abbandonare l’impresa di ridare un futuro allo stabilimento tarantino.

Ma ecco che la pubblicazione in extremis del nuovo decreto, ultima azione legislativa del primo Governo Conte ormai morente, giungeva appena in tempo per scongiurare una chiusura che, a quel punto, appariva come quasi inevitabile.

Il secondo scampato pericolo – meno netto del primo, ma comunque importante – e’ molto più recente. Infatti, risale al pomeriggio di venerdì 20 settembre, ovvero al giorno in cui il Tribunale del Riesame di Taranto, accogliendo il ricorso presentato da Ilva in Amministrazione straordinaria, ha scongiurato l’ormai imminente spegnimento dell’Altoforno 2, previsto per il 10 ottobre.

Anche qui, insomma, un salvataggio in extremis. Ma perché questo va considerato come un episodio importante?

Il fatto è che, dei diversi altoforni esistenti all’interno del vasto stabilimento tarantino, quelli attualmente in funzione sono tre. E’ però noto che, a breve, l’Altoforno 4 dovrà fermarsi per consentire l’effettuazione di opere di manutenzione non più rinviabili. Un eventuale spegnimento dell’Altoforno 2, detto nel gergo di stabilimento Afo 2, avrebbe quindi costretto l’acciaieria ad andare avanti con un solo altoforno in funzione. Il che, ovviamente, avrebbe provocato un drastico ridimensionamento dell’attività produttiva con inevitabili, quanto deprecabili e negative, ricadute occupazionali.

Al momento, dunque, pericolo scongiurato. Ma perché il Tribunale di Taranto voleva spegnere Afo 2?

Per capirlo, bisogna ripercorrere una delle tante storie particolari, anche drammatiche, di cui si compone il romanzo della grande acciaieria sita in riva al Golfo di Taranto.

Nel giugno del 2015, l’Afo 2 viene funestato da un tragico incidente. Una fiammata, mista a ghisa incandescente, raggiunge l’operaio Alessandro Morricella, intento a misurare la temperatura di colata. Il lavoratore, trentacinquenne, non sopravvive alle atroci ferite così riportate.

La Procura di Taranto, a questo punto, formula delle prescrizioni, volte a impedire il ripetersi di simili incidenti rendendo l’impianto più sicuro per i lavoratori ad esso addetti.

Il comportamento della Procura, fin qui, appare ineccepibile. Solo che, in seguito, giudicando insufficienti le misure assunte dall’Azienda per ottemperare alle prescrizioni ricevute, la stessa Procura dispone un primo sequestro dell’Altoforno 2.

E qui si riproduce, in piccolo, se così possiamo dire, quella sindrome tipo Comma 22 cui si impronta, in grande, la contrastata storia ambiental-giudiziaria dello stabilimento tarantino.

Facciamo dunque un passo indietro. Nelll’estate del 2012, l’intero centro siderurgico, allora proprieta’ della famiglia Riva, fu sequestrato dalla Procura della Repubblica di Taranto “senza facoltà d’uso”. Ciò a causa dell’inquinamento ambientale da esso provocato.

Semplificando molto, si può forse dire che la scuola di pensiero – di pensiero quanto meno giuridico, voglio dire, ma forse non solo giuridico – cui si ispirava questo atto della Procura può essere così riassunta.

Il Centro siderurgico di Taranto, con la sua attività produttiva, costituisce, di per sé, un fattore inquinante. In altre parole, mentre produce acciaio, produce anche inquinamento ed è quindi nocivo per la salute di chi ci lavora e di chi vive nei dintorni, a partire dagli abitanti dell’ormai famoso quartiere Tamburi. E poiché inquinare aria e terra e nuocere alla salute altrui costituiscono dei comportamenti penalmente rilevanti, non resta che impedire, con appositi provvedimenti, la prosecuzione della sua attività produttiva.

Fu allora che comincio’ a formarsi, specie in ambienti politici e sindacali, anche una seconda scuola di pensiero. La quale osservava che sequestrare un grande centro siderurgico non è come sequestrare un locale adibito a bisca clandestina: si spegne la luce, si tira giù la saracinesca e l’obiettivo é raggiunto. E non è neppure come sequestrare una pistola, ritenuta l’arma di un delitto: si sfila il caricatore, e si chiude il tutto in un cassetto.

Sequestrare una grande acciaieria, per questa seconda scuola di pensiero, è cosa ben diversa per più di un motivo.

Innanzitutto, perché si toglie il lavoro a migliaia di dipendenti diretti, nonché a molteplici attività dell’indotto.

In secondo luogo, forse anche più importante del primo, perché – nel caso dello stabillimento tarantino – si cancella la disponibilità di grandi quantità di acciaio prodotto in Italia, ovvero di acciaio di buona qualità ma reperibile a prezzi ragionevoli. Il che colpisce al cuore, in modo diretto o indiretto, un buon numero di imprese metalmeccaniche. Quelle che danno un contributo decisivo a far sì che l’Italia mantenga il posto di seconda potenza manifatturiera d’Europa.

A ciò va poi aggiunto un terzo motivo, specificamente connesso alle questioni ambientali. Interrompere l’attività produttiva non significa bloccare gli effetti inquinanti del cento siderurgico. Una parte rilevante di tali effetti non deriva, infatti, dalla sua attività, ma dalla sua presenza. E’ questo il caso dei cosiddetti parchi minerali, ovvero delle grandi distese in cui vengono accumulati, a cielo aperto, i minerali (ferro e carbone) necessari alla produzione dell’acciaio. E che, quando vengano investiti da un forte vento, danno luogo a effetti ovviamente inquinanti. In altre parole: sequestrare lo stabilimento è un atto che, di per sé, non risana l’ambiente.

Quarto motivo: le esperienze condotte in altri Paesi europei, oppure in Italia, ma in altri luoghi, mostrano due cose. Da un lato, che è possibile produrre ottimo acciaio senza devastare le zone circostanti con gravi effetti inquinanti. Dall’altro, che e’ molto più facile risanare un sito produttivo in funzione che uno dismesso. E qui Bagnoli docet.

L’offensiva giudiziaria del 2012 ebbe comunque un risultato: i Riva, colpiti anche da alcuni mandati di cattura, furono estromessi dalla guida dell’Ilva, cioè dalla guida del Gruppo proprietario, fra l’altro, dello stabilimento tarantino. Restava però un gigantesco interrogativo: che fare della stessa Ilva?

Saltando alcuni passaggi, arriviamo al gennaio 2015. Il Governo Renzi – che aderisce, grosso modo, a quella che abbiamo definito come seconda scuola di pensiero – vara un decreto legge recante “disposizioni urgenti per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell’area di Taranto”. Insomma, un decreto concepito ad hoc per tenere in vita il centro siderurgico. Dopodiché il ministero dello Sviluppo economico, retto all’epoca da Federica Guidi, pone l’Ilva in Amministrazione straordinaria.

Ai tre Commissari – Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi – viene affidata una duplice missione. Da un lato, trovare un compratore, cui affidare il futuro dell’Ilva. Dall’altro, ottemperare a quanto previsto dalle successive Autorizzazioni integrate ambientali, avviando il risanamento dell’area.

Un’azione, questa, cui darà un forte impulso Carlo Calenda, subentrato nel 2016 a Federica Guidi nel ruolo di ministro dello Sviluppo economico. In particolare, infatti, sarà proprio sotto la sua gestione che i tre Commissari avvieranno l’impegnativa opera di copertura dei parchi minerali. Opera volta, ovviamente, a eliminarne l’effetto inquinante.

 

In riferimento alla storia ambiental-giudiziaria della grande acciaieria di Taranto, abbiamo parlato, nella parte iniziale di questo articolo, di una sindrome tipo Comma 22. Ci siamo permessi di farlo avendo in mente la prima delle due scuole di pensiero sopra delineate.

Infatti, sia che a questa scuola si siano ispirati gruppi di ambientalisti minoritari ma vistosamente attivi sulla scena tarantina, sia che essa sia stata fonte di ispirazione per il Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, o per qualche Magistrato della Procura della Repubblica, il ragionamento è stato simile. Lo stabilimento Ilva, o ex-Ilva, inquina. Quindi, va chiuso. E poco importa se questa chiusura, oltre all’attività inquinante, blocca anche il risanamento del sito. Prima o poi, qualcuno farà qualcosa.

Torniamo adesso alla storia dell’Altoforno 2. Come si è visto, dopo il tragico incidente del giugno 2015, la Procura di Taranto formulò delle prescrizioni cui la proprietà doveva attenersi allo scopo di rendere l’altoforno piu sicuro per chi avrebbe lavorato in quell’impianto.

Successivamente, però, la Magistratura tarantina ritenne che i lavori fatti eseguire da Ilva in Amministrazione straordinaria non si fossero attenuti in modo soddisfacente alle prescrizioni ricevute.

Dopo vari passaggi, nel giugno di quest’anno si giunge così a un nuovo sequestro dell’impianto.

Ora qui occorre precisare che in base all’accordo del settembre 2018 ArcelorMittal ha sì acquisito la gestione dei “compendi industriali” di Ilva in Amministrazione straordinaria, ma lo ha fatto con la formula contrattuale dell’affitto di ramo d’azienda. Un “affitto” destinato a trasformarsi in possesso pieno ento il 2023.

Ciò spiega perché la controparte dei Giudici tarantini, nelle controversie che riguardano le responsabilità e gli interessi della proprietà dello stabilimento, sia ancora l’Amministrazione straordinaria e non già ArcelorMittal.

Il 31 luglio, il Giudice del dibattimento, Francesco Maccagnano, respinge l’istanza presentata da Ilva in Amministrazione straordinaria per la facoltà d’uso dell’Altoforno 2. Facoltà finalizzata, nei disegni della proprietà, a eseguire quegli ulteriori lavori di messa a norma dell’impianto che erano stati prescritti dal custode giudiziario.

Un mese dopo, il 2 settembre, Ilva in Amministrazione straordinaria presenta in Tribunale il proprio appello contro il citato provvedimento del giudice Maccagnano.

La nuova istanza di facoltà d’uso è corroborata, da un lato, dall’argomentazione secondo cui la situazione dell’altoforno è comunque già migliorata rispetto a quella del 2015, e, dall’altro, dall’impegno a effettuare gli ulteriori lavori richiesti.

Ed ecco che, finalmente, venerdì 20 settembre il Tribunale del Riesame accoglie il ricorso dell’Ilva in Amministrazione straordinaria e scongiura lo spegnimento di Afo 2.

Il Tribunale, peraltro, condiziona l’utilizzo dell’impianto all’adempimento delle prescrizioni impartite alla proprietà entro tre mesi.

Al momento, la sindrome da Comma 22 alla tarantina sembra dunque in via di superamento. Nel senso che forse ha cominciato a farsi strada l’idea che quella del sequestro giudiziario non appare come la soluzione più idonea per risolvere i complessi problemi ambientali e di sicurezza che si accompagnano alla vita di un grande stabilimento industriale.

D’altra parte, attorno all’acciaieria di Taranto i problemi non mancano. Il primo dei quali è il calo della domanda d’acciaio verificatasi in questi mesi in Europa. Calo della domanda che, come noto, si è già tradotto in un aggiustamento al ribasso dei programmi produttivi di ArcelorMittal e in un inatteso ricorso alla messa in Cassa integrazione, anche se per un periodo relativamente breve, di più di 1.300 lavoratori.

Ah, stavamo dimenticando di segnalare che il 1° ottobre dovrebbe cominciare, al Tribunale di Taranto, il processo penale relativo al tragico incidente in cui ha trovato la morte Alessandro Morricella. Ma questa è un’altra storia. Seguiremo anche questa.

@Fernando_Liuzzi

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Tags: ArcelorMittalSicurezzaAmbienteAcciaioTaranto
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