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Home - Approfondimenti - Analisi - Riformismo all’italiana

Riformismo all’italiana

di Ciro Cafiero
3 Giugno 2013
in Analisi

L’impressione che suscita la l. 92 del 2012, cd. riforma Fornero, a distanza di quasi un anno dalla sua entrata in vigore, è che sia stata pensata apposta per essere interpolata sul piano applicativo dai giudici, derogata dai sindacati, e da ultimo censurata dai “saggi” nominati dal Presidente della Repubblica.

Andando con ordine, la riforma ha spinto i giudici a metterci mano in via interpretativa perché ha, per alcuni versi, tentato di imbrigliarne la discrezionalità, attentando ad esempio al potere degli stessi di invocare, nel sindacato sulla condotta alla base del recesso disciplinare, il principio di proporzionalità previsto dalla legge, in particolare dall’art. 2106 del codice civile, ed imponendo loro, in questo senso, di tener conto solamente delle previsioni dei contratti collettivi e dei codici disciplinari.

Inoltre perché, sempre nell’ambito del recesso disciplinare, ha avuto la pretesa di circoscrivere l’indagine giudiziale alla condotta materiale dei lavoratori, tenendo fuori quella sugli elementi della volontà e, per questa via, menomando il diritto alla reintegra del lavoratore che avesse agito senza né colpa né dolo1.

O ancora perché non ha chiaramente disposto sull’estensione ai dipendenti pubblici della nuova disciplina sul licenziamento, e dunque sul rapporto tra la stessa e quella già contenuta nel d.lgs. n. 165 del 2001, limitandosi piuttosto a recitare, segnatamente ai commi 7 e 8 dell’art. 1, di aver individuato principi e criteri per la regolazione dei rapporti lavorativi del pubblico impiego nell’ottica, sostanzialmente, di una futura armonizzazione2.

Oppure infine perché ha generato confusione con l’introduzione di un rito sommario per i licenziamenti irrogati ai sensi dell’art. 18 della l. 300 del 19703, avendo individuato solo a tinte fosche le domande spiegabili con tale rito e le conseguenze di un utilizzo improprio dello stesso4.

La riforma Fornero non è poi piaciuta ai sindacati, che non hanno esitato a farne un bersaglio e, soprattutto, a renderla un’occasione per recuperare, da un lato, il consenso degli iscritti scuotendone gli animi con il grido di battaglia contro il Governo, dall’altro, una temporanea unità d’azione sull’onda della lotta al “nemico comune”, e quindi un’occasione per lenire le ferite provocate dalla crisi di rappresentatività incominciata nel 2009.

E così, i sindacati hanno ad esempio dato applicazione all’art. 8 del d.l. 138 del 2011, che consente alla contrattazione aziendale di derogare, ricorrendo determinate condizioni, alla legge e al ccnl, per posticipare, rispetto ai lavoratori della Golden Lady, di 12 mesi la disciplina sui contratti di associazione in partecipazione prevista dalla riforma5.

O ancora, ad esempio, hanno fatto uso del potere, previsto dall’art. 46 bis del c.d. decreto sviluppo (in sede di conversione), per ridurre a 20 e a 30 giorni gli intervalli dei contratti a termine che la stessa riforma aveva portato a 60 e a 90 giorni e, per questa via, scongiurare che le imprese, dovendo attendere periodi cosi lunghi per riassumere i lavoratori coinvolti, “pensionassero” i contratti di lavoro a tempo determinato.

Allo stesso modo, la riforma Fornero non ha convinto la commissione dei “saggi” nominata a fine marzo del 2013 dal Presidente della Repubblica che, ad esito dell’indagine sul mercato del lavoro, ha anzitutto denunciato l’esigenza di allentare le regole restrittive introdotte sempre sul contratto a termine.

Ma, soprattutto, ha messo in risalto la necessità di intervenire a sostegno dei giovani e dei lavoratori a bassa retribuzione e, in questo modo, messo a nudo la scarsa incisività dell’azione portata avanti in tale direzione durante il precedente esecutivo: sotto il primo profilo, ad esempio, con il rilancio del contratto di apprendistato, sotto l’altro profilo, ad esempio, con l’introduzione dell’obbligo del datore di lavoro di adeguare le retribuzioni dei lavoratori a progetto a quelle dei lavoratori subordinati che svolgano un’attività lavorativa analoga.

Ora, la colpa di aver concepito una riforma del mercato del lavoro che non ha fatto breccia nei cuori potrebbe, tutto sommato, trovare assoluzione a ragione della tendenza dell’uomo a fare cose di cui è evidente che in futuro dovrà pentirsi, come di recente ha ben affermato un noto politologo6.

Ma, di certo, agli uomini alla guida del nostro Paese non può perdonarsi la colpa di aver indugiato in questa tendenza per troppo tempo, come dimostra la pluralità di interventi riformatori del mercato del lavoro che in poco più di quindici anni si sono succeduti, senza risolvere del tutto il problema occupazionale.

Soprattutto, per questa colpa, il Paese sta scontando la più severa delle pene: prendere atto inerme dell’enorme crescita del concorrente europeo che a tale tendenza non ha ceduto, la Germania.

E infatti, la Repubblica tedesca ancora oggi si regge sulla riforma del mercato del lavoro attuata a partire dal 2003 per far fronte ai problemi occupazionali, ad opera della commissione presieduta da Hartz e su iniziativa di Schröder.

Una riforma che si snoda su quattro traiettorie7. Anzitutto, l’acausalità del contratto a termine per una durata massima di quattro anni al fine di agevolare il percorso delle imprese di nuova costituzione, oppure di due al fine di incentivare l’assunzione di lavoratori cinquantenni.

In secondo luogo, la semplificazione del contratto di lavoro in somministrazione nell’ottica di promuoverne l’utilizzo da parte delle imprese, fermo restando il potere del sindacato di derogarlo in punto di parità di trattamento tra i lavoratori.

In terzo luogo, la riforma del sistema di tutela contro la disoccupazione, condizionando l’erogazione dell’indennità alla disponibilità del percettore a svolgere ogni lavoro definito come “ragionevolmente accettabile” dalla legge e dunque, come è stato detto, nell’ottica del “fördern und fordern”: promuovere e chiedere.

Infine, la famosa c.d. Kurzarbeit8, che consente al datore di lavoro di negoziare con il comitato aziendale, o in assenza con i lavoratori stessi, una riduzione dell’orario di lavoro e quindi del salario, che però resta integrato per un periodo di tempo da un sussidio statale, la cd. indennità di orario ridotto .

Ebbene, il Governo Letta appena insediatosi ha in questa situazione una straordinaria occasione: quella di trovare per il mercato del lavoro soluzioni di cui gli uomini che si avvicenderanno alla guida del Paese non dovranno pentirsi.

Per questo, occorre la responsabilità della classe politica che ha, dunque, il dovere di non agire semplicemente per salvaguardare la propria esistenza, nell’ottica di far fronte alla crisi di rappresentatività che l’ha colpita.

Ma soprattutto, occorrono soluzioni che vadano al cuore del problema, che è la mancanza di crescita del Paese, e che dunque non necessariamente riformino, ancora una volta, la disciplina dei rapporti di lavoro ma che, piuttosto, anche grazie alle risorse liberate dalla chiusura della procedura europea d’infrazione per deficit, siano ad esempio rivolte alla detassazione del cuneo fiscale, o ancora all’efficientamento dei centri per l’impiego, o infine alla riduzione dei tempi della giustizia nell’ottica di attirare gli investimenti stranieri.

Perché, il rischio più grosso che corre ora il nuovo Governo è quello da cui Einaudi metteva in guardia nelle “Prediche inutili”, pubblicate nel 1955, esprimendosi in questi precisi termini: “le nuove leggi (n.d.r.) essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti propri di quelle mal studiate, sono inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora, sicché ben presto il tutto diviene un groviglio inestricabile, da cui nessuno cava più piedi”.

Ciro Cafiero

Collaboratore della cattedra di diritto del lavoro presso la Luiss

 

1Per una più compiuta trattazione della questione, si vedano M. Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in Arg. Dir. Lav., 2013, 1, pag. 1 e segg; F. Carinci, Il legislatore e il giudice: l’imprevidente innovatore ed il presente conservatore (in occasione di trib. Bologna, ord. 15 ottobre 2012), in Arg. Dir. Lav. 2012, 4-5, pag. 773 e segg; R. Riverso, Alla ricerca del fatto nel licenziamento disciplinare, in http://csdle.lex.unict/archive/uploads/up_463149437.pdf; ma anche, G. Lucchetti, L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento, in Coll. Giur. Lav, a cura di A. Vallebona, Sole 24 Ore, 2012, pag. 49 e segg.

2In questo senso, si vedano l’ ordinanza del 9 novembre 2012 del Tribunale di Perugia, l’ordinanza del 26 marzo 2013 del Tribunale di S. Maria Capua Vetere, ed infine l’ordinanza del 2 aprile 2013 del Tribunale di Ancona.

3Ad esempio, secondo i Tribunali di Firenze e Monza, l’azione promossa con rito speciale impedisce il verificarsi delle decadenze di cui all’art. 32 del Collegato Lavoro relative all’impugnazione del licenziamento anche se il Giudice dichiara inammissibile il ricorso. Secondo poi il Tribunale di Venezia, nel caso in cui sia introdotto con rito speciale un giudizio che avrebbe invece dovuto essere introdotto con rito ordinario, il Giudice non deve dichiarare l’inammissibilità del ricorso – declaratoria “che chiuderebbe il processo con una pronuncia di rito” – ma deve disporre il mutamento di rito, impedendo così il verificarsi delle decadenze di cui all’art. 32 del Collegato Lavoro.

4V’è da dire che, per contro, la riforma Fornero nell’ambito del licenziamento economico, ha affidato ai giudici non solo l’importante compito di declinare la categoria della manifesta insussistenza del fatto, ma persino il potere di decidere se far seguire, a tale accertamento, una tutela reintegratoria; o ancora, ha affidato il compito, altrettanto importante. di valutare se il livello di formazione teorica o pratica del lavoratore sia tale da escludere la presunzione di coordinamento e continuità relativa a prestazioni rese da titolari di partita IVA al ricorrere di determinate condizioni; o inoltre, quello di valutare, in assenza dell’intervento della contrattazione collettiva, quali siano le attività meramente ripetitive o esecutive che non possono integrare quel progetto che è condizione di legittimità della collaborazione coordinata e continuativa; o, infine, quello di valutare quali siano le prestazioni di elevata professionalità che non fanno scattare la presunzione di subordinazione di un rapporto di lavoro a progetto.

5 Per una ricostruzione delle vicende antecedenti all’art. 8 del d.l. 138 del 13 agosto del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, confronta per tutti M. Martone, La riforma delle relazioni industriali alla prova della competizione sindacale, in Riv. It. Dir. Lav., 2011, 3, pag. 307 e segg; per un’analisi del ruolo affidato al sindacato sempre dall’art. 8 del d.l. 138 del 13 agosto del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011, vedi invece M. Martone, Nuovi contratti e parti sociali, in “Il Sole 24 Ore”, 20 agosto 2011, pag. 1 e pag. 4.

5

6 Clause Offe, Progressi nella concezione di progresso?, in Riv. Pol. Soc., 2011,1.

77 Per una più ampia trattazione sul tema, si veda l’intervento di M. Fuchs in Congresso Aidlass (Bologna, 16-17 maggio 2013), Il ruolo dei diritto del lavoro della sicurezza sociale nella crisi economica. L’esperienza tedesca

8 Sulla scorta della Kurzarbeit, il 14 marzo 2013, l’allora viceministro del Lavoro Michel Martone, in via del tutto innovativa, per il salvataggio dell’ILVA di Taranto, ed in particolare per scongiurare il ricorso alla CIG straordinaria richiesta dall’azienda per 6.507 dipendenti, ha trovato un’intesa unitaria con i sindacati che prevede l’utilizzo della solidarietà difensiva. Grazie a tale accordo, la corrispondente riduzione dell’orario di lavoro verrà distribuita, secondo le modalità previste dall’accordo, tra tutti i lavoratori dello stabilimento. Formazione

Ciro Cafiero

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