Dopo la recente dichiarazione del Presidente della FED di considerare, nel prossimo periodo, non più l’inflazione il principale problema da affrontare, bensì la disoccupazione, per impedire un nuovo, più drastico, ciclo recessivo, sono stati molti i commenti in Italia, che hanno sottolineato l’importanza di questo orientamento anche per le politiche monetarie europee.
Gli stessi, tuttavia, si sono concentrati, anche correttamente, sulla necessità di una politica monetaria ancora più espansiva auspicando cosi un rilancio dei consumi e, per questa via, l’avvio di una nuova fase di crescita economica.
Tuttavia, relativamente alle implicazioni, di questo corretto presupposto, sul sistema della Relazioni Industriali italiano, pochi hanno avviato una coerente riflessione critica.
Sotto traccia, sommessamente, persino il Presidente di Confindustria riconosce che esiste una questione salariale da affrontare nel nostro paese, ma il rischio è quello che ci si limiti ad aprire una nuova discussione, per lo più astiosa, tra sindacati e datori di lavoro sugli incrementi retributivi da erogare, in questa fase di rinnovi contrattuali, scambiandosi reciproche accuse di arretratezza culturale.
Quello che manca, a mio modesto avviso, è la capacità di inserire questa questione in un più generale sistema di coerenze macroeconomiche, senza il quale si rischia di renderla sterile o peggio ancora inefficace, poiché tutti i soggetti colgono una parte del vero ma solo una parte.
Da un lato hanno ragione i sindacati a riproporre la questione del salario come questione centrale da affrontare nei prossimi rinnovi contrattuali. In parte lo stesso Presidente di Confindustria ne conviene, anzi imputa all’attuale struttura della contrattazione la responsabilità di una asfittica stagione incrementi salariali, per lo più collegati a indici di riferimento, ormai desueti, quali la prestazione lavorativa misurata nel tempo. Dall’altro lato ha ragione Confindustria a chiedere che venga, con più coraggio, dato maggior peso alla contrattazione di prossimità, ma rischia, così facendo, di agitare lo spettro del “depotenziamento” del ruolo del Contratto Collettivo Nazionale, innescando pregiudiziali sindacali, magari aprioristiche, ma non del tutto immotivate (vedi gli ultimi intervento sul tema da parte di M. Landini).
Quello che però manca del tutto, ripeto, è una valutazione complessiva del ruolo “espansivo” che potrebbe avere una decisa rivalutazione dei minimi salariali contrattuali.
Ormai è noto che non può esistere una questione salariale, intesa come leva per espandere i consumi interni, scollegata da una riforma della pressione fiscale (IRPEF) sui redditi da lavoro e questa questione a sua volta deve essere affrontata tenendo inevitabilmente conto dei vincoli di finanza pubblica (debito/PIL).
Se non si avvia lo scioglimento di questo “perverso” intreccio si rischia di rimanere bloccati su legittime posizioni di merito ma del tutto paralizzanti. Occorre invece indicare un sentiero virtuoso di rilancio dei consumi interni, riduzione del prelievo fiscale sul lavoro e aperura di nuovi spazi alla contrattazione di prossimità.
Non si tracciano nuove rotte sotto lo stesso cielo. Soprattutto quando non ci si rende conto che il cielo è profondamente cambiato (inutile cercare la stella polare nei mari del sud).
Quello che la FED sta dicendo in fondo è molto semplice. La globalizzazione ha funzionato da potente calmieratore dell’inflazione mondiale, può non fare piacere, ma mai come in questi ultimi decenni l’inflazione ha registrato tassi d’incremento così bassi.
Tuttavia questo non si è tradotto in incremento dei consumi e di conseguenza in crescita economica. Mi dispiace per i teorici della decrescita felice, ma senza sviluppo (sostenibile) inevitabilmente crescerà anche la diseguaglianza sociale, in primis la disoccupazione.
Per l’Italia, a differenza di sistemi economici molto più “elastici”, questo scenario è vieppiù complicato dai ferrei vincoli di bilancio, che non sono solo imposti dalla nostra adesione ai trattati europei, ma sono semplicemente imposti da mercati, che saranno pure spietati, ma non sono, nel loro funzionamento, illogici.
Qualunque intervento si voglia effettuare, per incrementare le retribuzioni, lo stesso deve essere collegato ad interventi coerenti di politica fiscale e più in generale di politica economica, i quali, inevitabilmente, devono mettere in discussione rendite consolidate, quando parlo di rendite non uso questo termine a caso.
HIC RHODUS HIC SALTA
Cercherò di argomentare brevemente queste affermazioni, sperando di contribuire a rilanciare un dibattito, senza alcuna presunzione di verità assoluta.
Sono convinto che, se si ponesse, magari in una sede di concertazione con le parti sociali (si può usare ancora questa parola?) un coerente quadro di riferimento di scelte economiche, probabilmente anche i comportamenti dei soggetti organizzati potrebbero trovare interessi convergenti.
In altri termini, come sappiamo i rinnovi contrattuali si svolgono tenendo conto dell’IPCA (inflazione attesa …ma anche programmata), indicatore utile per individuare i valori di rivalutazione dei minimi contrattuali.
Lo schema è individuato nel “Patto per la Fabbrica” nulla di rivoluzionario, me ne rendo conto ma è quello che ora c’è e, sarebbe meglio non disprezzarlo troppo.
Il ruolo del Governo è fondamentale, si tratta di “programmare” un’inflazione, nel prossimo triennio, non inferiore al 2% annuo (si badi bene che la FED trova insufficiente e limitato persino questo tasso di inflazione).
Un’azione del Governo di “moral suasion” dovrebbe quindi spingere verso rinnovi contrattuali coerenti con questo indice IPCA.
Sarebbe opportuno, io credo necessario, nello stesso arco temporale, indicare anche una prima riforma delle aliquote IRPEF finalizzata a ridurre, seppur gradualmente, il prelievo fiscale soprattutto della fascia dei redditi medi di lavoro, dai 30 ai 45 mila euro lordi annui, che da soli contribuiscono col 59% del gettito fiscale complessivo.
Ciò consentirebbe di incrementare la quota del reddito disponibile quale leva principale per il rilancio dei consumi interni, ma occorre essere consapevoli che nessuna cura è senza contro indicazioni, si dovrà infatti spostare, seppur gradualmente, parte del mancato prelievo fiscale verso i consumi e le rendite.
Una rivisitazione selettiva delle aliquote IVA (è possibile farlo senza determinare una contrazione dei consumi) insieme ad una rimodulazione della tassazione sui patrimoni immobiliari, come più volte richiesto dalla stessa Unione Europea, è il sentiero “stretto” attraverso il quale “liberare” i redditi da lavoro dalla tenaglia della “moderazione”, per non innescare una spirale inflazionistica, e un distorto sistema di prelievo fiscale che oggi li penalizza, al punto tale da rendere del tutto ininfluente qualsiasi incremento retributivo.
Su questo mi aspetto ovviamente le critiche di chi è pronto a gridare allo scandalo perchè si tocca l’IVA e perché si invoca una “nuova patrimoniale”. Tuttavia, senza affrontare anche questi nodi la discussione sugli incrementi retributivi, assolutamente necessari per rilanciare i consumi interni, rischierà, ancora una volta, di essere del tutto “accademica”.
Infine, quale spazio dare agli incrementi collegati alla produttività aziendale?
Io penso che qui occorra davvero essere innovativi, la contrattazione di secondo livello deve, ripeto deve essere centrale, il che vuol dire che molti ambiti: articolazione degli orari, modalità di erogazione della prestazione (cfr. Smart Working) ora di pertinenza del CCNL, dovrebbero passare sotto giurisdizione (assoluta e non relativa al CCNL ) della contrattazione aziendale, tra questi anche e soprattutto il sistema degli inquadramenti professionali, al fine di meglio rappresentare il mondo che sta davvero cambiando “nel punto del fare”.
Luigi Marelli