Confindustria ha voltato pagina. Il voto di Giunta sulla squadra e il programma di Giorgio Squinzi ha sancito la conclusione della divisione che si era palesata al momento della designazione. Resta certamente tra gli industriali una zona di insoddisfazione e malumore, ma si tratta di poco più di un fatto di routine. Non ho mai creduto del resto alle elezioni plebiscitarie, quando un presidente o un segretario generale di un sindacato vengono votati dal 97 dal 98% di chi li deve scegliere, questo fatto nasconde sempre delle divergenze, che non possono non esistere, a meno che chi viene eletto si prefigga dichiaratamente di non voler fare nulla, di non muovere palla per l’intera durata del suo mandato. Una scelta ha sempre degli oppositori e meno male che è così, perché è questa la dimostrazione che in un’associazione o confederazione che sia si pensa davvero, e quindi ci si divide. Importante in questi casi è appunto scegliere e poi lavorare tutti per la realizzazione degli obiettivi che si è deciso di perseguire. E questo avverrà in Confindustria adesso.
E non poteva non essere così, perché dietro la divisione delle scorse settimane, a ben vedere, non c’è mai stata vera divisione di intenti. L’unica divisione era la politica sindacale, e non è certo cosa da poco per una confederazione imprenditoriale, ma anche questa non era materia da portare davvero a una divisione profonda e difficilmente sanabile. L’unico vero precedente, quello che avvenne nel 1984, quando si trattò di scegliere il successore di Renato Lombardi, prova proprio questo. Perché allora la divisione era politica, nel senso partitico della parola, e perché dietro le due fazioni che si scontrarono c’era una diversa visione della mission di Confindustria. Allora la divisione fu fortissima, la Giunta di Confindustria si spaccò verticalmente e non bastarono poche settimane per sanare quella frattura, servì l’intervento personale dell’industriale più prestigioso di quegli anni, Gianni Agnelli, che si assunse la guida della confederazione per un anno e poi rimase per un altro anno ancora, proprio per colmare fino in fondo quella divisione.
Quella di adesso era tutt’altra cosa. Non era solo una diatriba per sistemare qualche poltrona, ma certo non c’erano dietro i due contendenti visioni diametralmente opposte. E proprio per questo aveva destato impressione la costituzione di una vera e propria corrente, un fatto che sembrava nascondere qualcosa di ben più profondo, che invece non c’era. Ed è per questo che adesso è credibile che tutte le energie saranno spese nel tentativo di realizzare gli obiettivi che il prossimo presidente di Confindustria ha indicato.
Compito molto oneroso, ma ineludibile, perché le crepe che Confindustria e in generale il sistema di rappresentanza sociale ha mostrato sono profonde ed è indispensabile mettervi riparo. Il rifiuto di Monti nei confronti della concertazione non è solo lo specchio di un diverso modo di governare, è la causa di un declassamento del ruolo politico svolto da Confindustria, dai sindacati, in generale dai corpi intermedi. E questi, Confindustria in testa, non possono assistere a tale caduta senza cercare di reagire. Il punto è che non sono questi problemi che si risolvono con una trovata intelligente, un’ideona, tanto per capirci, serve un’azione lenta e costante e soprattutto una forte coerenza di comportamenti. Vale quanto ha affermato Squinzi nel suo programma per le relazioni industriali. Non bastano delle regole, per quanto buone, ha affermato, va costruito un sistema nuovo giorno per giorno partendo da scelte strategiche e adeguandovi il proprio comportamento con coerenza e capacità. Un’azione lenta, ma, appunto, ineludibile. La squadra del nuovo presidente appare coesa, con le capacità necessarie. Riuscirà nel suo intento se tutte le forze interne alla confederazione aiuteranno questo sforzo.
Massimo Mascini