Dall’inizio di marzo, i lavoratori dipendenti possono avere il Tfr in busta paga. In che senso? Nel senso che possono chiedere ai propri datori di lavoro di versare mensilmente nelle loro busta paga la quota di trattamento di fine rapporto che i medesimi datori di lavoro dovrebbero accantonare su base mensile. Qual è la novità? Anche prima i datori di lavoro avevano l’obbligo di effettuare questi accantonamenti mensili solo che, mese dopo mese, il lavoratore non se ne accorgeva. Perché lo scopo del tutto era quello di mettere insieme un piccolo gruzzolo, o magari un gruzzolo non tanto piccolo, che il lavoratore aveva il diritto di ricevere, in un’unica soluzione, alla fine del rapporto di lavoro. E ciò sia che a tale fine si arrivasse perché il dipendente aveva maturato il diritto di andare in pensione, sia che il dipendente venisse licenziato dal datore di lavoro, sia che – infine – il dipendente stesso presentasse le sue dimissioni.
La novità è che adesso il governo Renzi ha pensato bene di innovare anche in questo campo, offrendo ai lavoratori il diritto di godersi subito, mese dopo mese, questa piccola cifra. A che scopo? Forse per impinguare un po’ buste paga relativamente piuttosto magre e che, crisi perdurante, non possono aspettarsi di crescere per via contrattuale. Forse, di conseguenza, per dare un po’ di ossigeno a una domanda interna sempre più boccheggiante. O forse, dicono gli oppositori dell’attuale Governo, per dare almeno per questa via l’impressione che con Renzi a palazzo Chigi i salari tornano a crescere.
Sia come sia, stando alle primissime rilevazioni, rese note da Confcommercio il 2 marzo, pare che i lavoratori non siano orientati ad accogliere questa nuova possibilità come un’appetibile opportunità e che, per adesso, siano maggioritariamente intenzionati a tenere i soldi dei loro Tfr al calduccio nelle casse delle imprese per cui lavorano. Preferendo, insomma, continuare ad assegnare a questi stessi soldi la funzione di una riserva da conservare in vista di un futuro sempre più incerto.
All’invito governativo a trasformarsi in altrettante spensierate cicale, i lavoratori dipendenti, per ora, rispondono quindi comportandosi come giudiziose formiche. Il che un po’ è nel carattere degli italiani, tradizionalmente risparmiatori. Ma forse dipende anche dal fatto che mentre il Tfr, quando scocca l’ora del suo riscatto finale, gode di un trattamento fiscale privilegiato, dal momento in cui entrerà nella busta paga perderà questa sua condizione originaria, trasformandosi in quota parte di un salario assoggettato al normale regime fiscale delle aliquote crescenti al crescere del reddito. La norma governativa, insomma, è stata concepita in modo tale che, dietro al luccichio del denaro apparentemente facile, si nasconde una tagliola fiscale che fa perdere di convenienza all’operazione.
Ora è vero che il trattamento di fine rapporto, detto familiarmente liquidazione nel linguaggio quotidiano, è un istituto salariale noto per essere venuto utilmente incontro alle esigenze sociali tipiche del dopoguerra. In altri termini, il Tfr ebbe principalmente la funzione di soccorrere i lavoratori nei processi di inurbamento che hanno accompagnato la trasformazione dell’Italia da paese ancora significativamente agricolo a paese prevalentemente industriale. Il bracciante che abbandonava i feudi del Mezzogiorno, il mezzadro che lasciava le colline dell’Italia centrale o il contadino povero che abbandonava le campagne del Veneto, via, via che andavano a stare in città dove si sarebbero trasformati prima in edili e poi in operai tessili, metalmeccanici o chimici, al momento di andare in pensione si ritrovavano proprietari di una certa cifra – la liquidazione, appunto – con cui potevano ristrutturare la casa dei genitori al paesello natio, oppure dare l’anticipo necessario per avviare l’acquisto di un appartamento, magari in cooperativa, per passarci la propria vecchiaia o per donarlo alla figlia in procinto di sposarsi.
Da allora, cioè dagli anni in cui gli italiani erano poveri ma belli, il mondo è cambiato più volte e già almeno negli anni Ottanta ci fu chi cominciò a chiedersi se non fosse il caso di ripensare a questa particolare forma di salario differito. La grande occasione per dare un nuovo smalto al Tfr fu però rappresentata dall’introduzione, negli anni Novanta, della previdenza complementare. Un istituto che, di fronte al prevedibile declino delle capacità erogative dei sistemi pensionistici pubblici – dovuto principalmente a fattori demografici, ovvero all’invecchiamento della popolazione, figlio a sua volta dello sviluppo capitalistico e della conseguente costruzione dello Stato sociale -, nacque con lo scopo di far sì che fosse possibile rinpinguare, almeno in parte, i redditi dei pensionati del futuro. In pratica, a partire dai chimici con Fonchim, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle imprese dei diversi rami dell’attività produttiva, in occasione del rinnovo dei loro Contratti nazionali, diedero vita a dei fondi previdenziali detti negoziali perché originati dalla contrattazione collettiva. Tali fondi erano, e tutt’ora sono, basati sul principio che all’adesione volontaria del lavoratore, che si impegna a versare nel fondo una data cifra mensile, corrisponda l’obbligo del datore di lavoro di versare nello stesso fondo un pari importo. Dopodiché, questi soldi saranno investiti, sia pure con la dovuta prudenza, allo scopo di far lievitare la somma che potrà poi essere riscattata per intero dal dipendente, oppure goduta sotto forma di una cifra che, mensilmente, integra la sua pensione principale.
E che c’entra il Tfr? C’entra perché la soluzione allora individuata per dare nuova vita a questo vecchio istituto fu appunto quella che concedeva ai lavoratori la possibilità di versare parte del Tfr maturando (attualmente, per i nuovi assunti, l’intero Tfr) nel fondo di previdenza complementare, allo scopo di arricchire i frutti di questa più dinamica forma di risparmio previdenziale.
Pare comunque che questa trovata del Governo Renzi non sia piaciuta a nessuno. Non alla stragrande maggioranza dei lavoratori, che preferiscono che gli accantonamenti effettuati mensilmente dai datori di lavoro continuino ad alimentare le loro future liquidazioni conservate nelle casse delle aziende da cui dipendono, o versate nei fondi di previdenza complementare, ove sperano possano rivalutarsi in modo più consistente. Non alle aziende di minori dimensioni che, secondo una tradizione ormai consolidata, usano queste cifre via, via accumulatesi nelle loro casse come forma di autofinanziamento a costo zero. Ma, soprattutto, non sono piaciute ad Assofondipensione, l’associazione che raccoglie 34 fondi di previdenza complementare originati da altrettanti contratti nazionali di categoria. L’associazione, infatti, ha visto in questa misura del governo Renzi un’iniziativa che, ove incontrasse il consenso dei lavoratori, rischierebbe di prosciugare una delle tre fonti che alimentano i fondi, finendo per indebolirli.
Tanto maggiore è stata l’irritazione di Assofondi quando si è scoperto che, nelle pieghe del disegno di legge sulla concorrenza, varato dal Consiglio dei ministri venerdì 20 febbraio, sono contenute delle proposte normative che, ove tradotte in pratica, potrebbero risolversi in un indubbio vantaggio per banche e assicurazioni, ma andrebbero a detrimento dei fondi negoziali.
Qui il più rapido è stato Domenico Proietti, segretario confederale della Uil responsabile per le questioni fiscali, il quale, già lunedì 23 febbraio, ha accusato il Governo guidato da Matteo Renzi di voler dare “un ulteriore colpo alla previdenza complementare”. Due giorni dopo, mercoledì 25, lo ha seguito Vera Lamonica che, nella segreteria confederale della Cgil, ha la responsabilità delle questioni previdenziali e che, in una sua dichiarazione, ha chiesto al Parlamento di “opporsi” a una norma che “indebolirebbe ulteriormente la previdenza complementare”.
Di cosa stiamo parlando? Delle proposte contenute nell’articolo 15 del ddl in questione, quello intitolato alla “Portabilità dei fondi pensione”. Un articolo, va detto subito, poco chiaro a una prima lettura, perché, come accade spesso con le proposte di legge, è tutto fatto di rinvii ai vari commi di vari articoli di leggi precedenti. Ma la sostanza, contenuta in particolare nel comma d) del testo governativo, è che il contributo del datore di lavoro, attualmente obbligatorio quando un lavoratore aderisce a un fondo negoziale, diventerebbe obbligatorio anche qualora il dipendente lasciasse il fondo di categoria per passare a un fondo promosso da una banca, o a un cosiddetto Piano individuale di previdenza (Pip) promosso da una compagnia di assicurazione.
Apparentemente, ci si trova di fronte a un’estensione dei diritti che possono essere rivendicati dai singoli lavoratori. Perché allora le proteste sindacali? Perché in realtà, sostengono le Confederazioni citate, si è in presenza del tentativo di favorire banche e assicurazioni, indebolendo specularmente la previdenza integrativa di origine negoziale.
Bisogna pensare infatti, spiega al Diario Gianni Ferrante, esperto di previdenza complementare, che l’obbligo per il datore di lavoro di versare al dipendente che aderisce ai fondi negoziali un contributo pari a quello versato dallo stesso dipendente è frutto della contrattazione collettiva e non della legge. Ed è infatti un obbligo che fa parte di una serie di convenienze che le parti istitutive dei fondi si sono reciprocamente riconosciute. Se l’art. 15 venisse approvato dal Parlamento così come è uscito da palazzo Chigi, il risultato sarebbe che di una conquista contrattuale ottenuta dai sindacati – anche in cambio di una più accentuata moderazione salariale – finirebbero per godere banche e assicurazioni. O, guardando la cosa dall’altro lato, succederebbe che le imprese manifatturiere e dei servizi sarebbero costrette a versare dei soldi a imprese creditizie o a compagnie di assicurazioni in cambio di niente.
Fatto sta che Assofondipensione ha espresso la sua “sorpresa” per il fatto di essersi trovata davanti a “un nuovo provvedimento in materia di previdenza integrativa”, quello contenuto nel ddl concorrenza, “a neanche due mesi di distanza rispetto alle novità introdotte con la legge di Stabilità, cioè l’anticipo del Tfr in busta paga” e, per altro verso, “l’aumento della tassazione sui i rendimenti dei Fondi Pensione”. E ha poi osservato che “l’affastellarsi di iniziative” su un tema “delicato” come quello delle pensioni dei lavoratori, dà il senso di “un approccio pericolosamente disorganico”.
In effetti, da un Governo sostenuto da partiti che affermano di ispirarsi a una cultura politica, a vario titolo, riformista, ci si sarebbe aspettati una maggiore simpatia per una tipica istituzione riformista, quale è il sistema della previdenza complementare. Ora è chiaro che questa simpatia, nel Governo Renzi, non c’è. Resta il dubbio se si tratti di semplice disattenzione, o se non si tratti invece di simpatia per la lobby composta da banche e assicurazioni. Una lobby che guarda con grande interesse alle ingenti risorse accumulate nei fondi negoziali grazie ai rapporti da essi stabiliti con centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti.
@Fernando_Liuzzi