L’esito dei referendum celebrati l’8 e il 9 giugno lascia cicatrici politiche significative sia pure di segno diverso, su lavoro e cittadinanza, e, per la debàcle della partecipazione, anche a causa della impropria politicizzazione e dell’astrusità e dell’ambiguità delle conseguenze dei quesiti (sul lavoro), anche sulla nostra democrazia già segnata in maniera preoccupante dall’astensionismo. Il mancato raggiungimento del quorum, ipotesi attesa, ma ampiamente sottovalutata dai promotori dei referendum, riporta bruscamente alla dura realtà di un’insignificanza politica del lavoro nel nostro paese, che vede come effetto un’ulteriore riduzione degli spazi di dibattito, monopolizzati da una narrazione entusiastica quanto infondata del governo Meloni, se, come ha ricordato recentemente l’Istat, nel nostro paese, in un’economia stagnante, il lavoro è di scarsa qualità e a bassa produttività, e non permette la crescita dei salari. Lo pensano certamente le centinaia di migliaia di giovani che hanno lasciato l’Italia per cercare fortuna professionale altrove, e quei milioni di lavoratori in mobilità – quelli della great resignation – alla ricerca di un lavoro migliore, che dia senso all’esistenza. Perché il lavoro non è più quello di una volta. Per decenni si è discettato sulla liberazione dal lavoro o nel lavoro, ma il punto oggi è la liberazione del lavoro da ogni gravame ideologico e da una perdurante logica mercantile, in un contesto sociale dove ciascuna persona, a buon diritto, imbocca la strada che predilige, alla ricerca non di un lavoro, ma di quel lavoro che renda liberi, riconosciuti, e realizzati professionalmente, all’interno di un ambiente cooperativo e non competitivo. Perché il lavoro sia gioia e non tormento e giovi a un nobile scopo, avrebbe chiosato Adriano Olivetti.
Da un approccio ideologico all’altro, con i risultati del referendum sulla cittadinanza, il passo è breve. Il 35% dei no, benchè appaia una sorpresa, ci dice che il refrain compulsivo ossessivo sull’ostilità verso gli immigrati come fattore di successo elettorale di una sinistra che emula la destra, comincia a dare i suoi frutti. Una volta si diceva no taxation without representation, ossia “nessuna tassazione senza rappresentanza”, oggi dovremmo dire “nessuna tassazione senza cittadinanza”, in quanto è palesemente ingiusto che ai doveri, per i migranti in regola non corrisponda un accesso alla cittadinanza che non sia una lunghissima corsa ad ostacoli. Considerando peraltro che con il loro lavoro, quello povero, scartato dagli italiani, essi producono il 9% del Pil e un + 1,2 miliardi di euro nel saldo tra entrate fiscali e uscite per i servizi a loro destinati.
Il linguaggio crea mondi, e in questi anni, parte crescente della politica e dei mass media, replicati dai social, continua a parlare di un’invasione minacciosa che non c’è, propagandando stereotipi che modificano la realtà, fino al punto che non consideriamo più le persone in carne e ossa, i loro destini e progetti esistenziali, ma neanche il prezioso e irrinunciabile contributo che essi danno per la sostenibilità dei conti pubblici, del welfare e perciò del nostro benessere. L’esito referendario rischia di intralciare invece che fluidificare i percorsi della cittadinanza. Ma non si può più prendere senza dare, né continuare a nutrire di ostilità e intolleranza quell’immaginario individuale e collettivo che ascrive all’immigrazione l’origine di tutti i nostri mali sociali, compresi i femminicidi, quasi tutti made in Italy.
Rosario Iaccarino