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Home - Approfondimenti - Analisi - Una proposta di riforma

Una proposta di riforma

24 Gennaio 2007
in Analisi

di Maurizio Castro

Vi è un sostanziale consenso intorno alle principali criticità del sistema economico italiano, identificate così:
a) il nanismo delle imprese, idest una dimensione inadeguata all’intensità e alla vastità del confronto competitivo internazionale;
b) la concentrazione nei segmenti medio-bassi dei settori manifatturieri;
c) il familismo degli assetti proprietari, insufficiente a garantire innovazione propulsiva sul versante prodotti/processi e a garantire alimentazione finanziaria al riposizionamento nell’arena internazionale;
d) il deficit infrastrutturale;
e) la gracilità delle fonti di approvvigionamento energetico;
f) il disallineamento endemico del Sud dai profili competitivi europei;
g) una struttura dei servizi bancari e assicurativi inefficiente e a vocazione consociativa;
h) una Pubblica Amministrazione autoreferenziale e con performance a bassa efficacia. All’elenco, aggiungerei poi per il Nord:
i) il manifestarsi di uno sfilacciamento tra la cultura della centralità d’impresa che ha segnato l’identità nordista nell’ultimo ventennio e l’emersione di prospettive comunitarie e a vocazione ‘regressiva’ e ‘neo-feudale’, come tali insofferenti alle conseguenze del modello ‘industrialista’ (inquinamento, immigrazione massiva, secolarizzazione, urbanesimo).
In termini di orizzonti strategici, sembra persino essersi coagulato un consenso sufficiente intorno alla necessità di convertire l’assetto tradizionale del Paese, condensato intorno al focus sulla produzione domestica a basso costo e a vocazione esportativa, in un nuovo assetto innervato dalla presenza di player transnazionali attestati in segmenti marcati dal contenuto di qualità e di originalità, e dunque condensato intorno al focus sul prodotto ad alto valore e a vocazione globale, anche se di nicchia.
Vi è invece un dibattito ancora molto aspro e turbolento sugli interventi programmatici per rilanciare lo sviluppo, nel quale però si riescono a individuare due livelli opposti di agglutinazione concettuale: i fautori del ruolo centrale della ‘politica industriale’ come forma di governo dei processi economici versus i fautori di un ritrovato laissez faire; ovvero coloro che eleggono come prima e propria la prospettiva del ‘produttore’ versus coloro che eleggono quella del ‘consumatore’.
Vi è infine, in tanto ragionare e vociare e duellare, un grande assente: le relazioni industriali. Un fattore cruciale per lo sviluppo del Paese, a qualunque scuola si appartenga: eppure obliato.

Condizione questa a dir poco singolare in un Paese dove il tema del lavoro è storicamente al centro dell’arena politica, e in un modo tanto violento da esser noi l’unico Paese al mondo dove il terrorismo assassina i giuslavoristi. Dove il tormentatissimo confronto sulla flessibilità che ha segnato gli ultimi due anni si è svolto tutto sul versante ‘legale’ (il pacchetto Treu, la legge Biagi), senza che si riuscisse a valorizzare per davvero il versante ‘contrattuale’. E dove le parti sociali – dopo aver sperimentato l’esaltante anomalia istituzionale della loro ‘supplenza’ rispetto alla politica e ai partiti nel biennio 1992-94, culminata nella grande riforma del 1993 – sono da alcuni anni rifluite (e finanche consapevolmente, se non programmaticamente) a un ruolo spesso vicario, e talora persino ancillare (osservatori neanche troppo maliziosi hanno imputato alla Confindustria damatiana un’alleanza ‘organica’, per esempio, al gabinetto Berlusconi e alla Cgil epifaniana un medesimo tipo d’alleanza al gabinetto Prodi).


Trascurare la leva delle relazioni industriali in un sistema economico ancora significativamente addensato intorno alla sua dimensione manifatturiera (all’incirca, ancora il 50% dell’intera catena del valore!), e la cui produttività è così in crisi da aver perso oltre 20 punti negli ultimi cinque anni rispetto ai migliori competitori endo-europei, è non solo un errore marchiano, ma soprattutto un costo che non ci possiamo più permettere di sopportare.
Oltretutto, credo che lo stesso processo di riposizionamento competitivo del Paese verso i segmenti dell’ ‘’alto di gamma’’, e cioè a più alta qualità riconosciuta e remunerata – che, come sopra rammentavo, tutti indicano come la terapia più efficace per rimediare all’anemia mediterranea di cui l’Italia soffre – non sia plausibile se affidato solo a riti stregonescamente evocativi (la ricerca! lo sviluppo! l’innovazione!), ma lo diventi se basato sulla concretezza di prodotti migliori, generati e realizzati da un sistema integrato di intelligenza-esperienza-competenza inverato in una risorsa umana culturalmente, organizzativamente, gestionalmente ‘superiore’.  Ed è pacifico che tale superiorità nell’endiadi tradizione-innovazione non possa essere stabilmente attinta mercé azioni e interventi a orizzonte individuale, ma soltanto e invece mercé programmi e operazioni a orizzonte collettivo: per dirla ruvidamente, mercé relazioni industriali propulsive e creatrici, ‘auxopoietiche’.
A mio avviso, la stessa ‘comunità’ delle R. I. (i responsabili del personale, i segretari delle organizzazioni sindacali, i dirigenti delle associazioni datoriali, i giuslavoristi e gli studiosi di rapporti sindacali: insomma, il popolo che gravita intorno a Il diario del lavoro!) sta accettando tacitamente questa deriva, questo declino, senza rivendicare a sé il compito di definire i parametri e le linee portanti di un grande progetto di modernizzazione del sistema economico-produttivo italiano, il cui driver di sviluppo siano una nuova cultura e una nyova prassi delle R. I..


In un mio recente intervento sulla stampa quotidiana (Il Riformista, 4 gennaio), esprimevo la sfiducia che, nell’attuale contesto ‘bloccato’, fosse possibile rinvenire, nella rappresentanza delle imprese, in quella sindacale, e in quella governativa, l’energia coraggiosa, la determinazione riformatrice, per giungere a un vigoroso, scandito Patto per la Competitività entro il 2007. E sommessamente proponevo allora un approccio più laterale, più progressivo, più prudente, una sorta di ‘terapia occupazionale’ applicata alle R. I. nostrane: ‘’una pluralità di interventi, autonomi fra loro ma teleologicamente organizzati, di promozione, incentivazione, premialità, induzione alla contrattazione (meglio se decentrata), da considerare in sé e per sé portatrice di sviluppo ordinato e di accelerazione competitiva’’. E additavo, a mero titolo esemplificativo, una serie di interventi, facili e a costo (pressoché) zero: dalla riduzione del carico fiscale sugli aumenti retributivi generati dalla contrattazione aziendale con meccanismi di gain sharing a quella sulle indennità per lavoro straordinario, flessibile o disagiato stabilite sempre dalla contrattazione aziendale; dall’esenzione fiscale per le operazioni di partecipazione al capitale da parte dei lavoratori alle incentivazioni fiscali, contributive e normative in favore delle esperienze partecipative anche di tipo organizzativo o strategico: dalla legittimità delle ‘clausole di uscita’ disposte dalla contrattazione collettiva anche  di secondo livello al riconoscimento della validità delle pattuizioni individuali intervenute con il benestare delle oo.ss.ll. maggiormente rappresentative.
Mi è stato però opposto, amichevolmente ma autorevolmente (da Pier Paolo Baretta), che la proposta era un escamotage tanto più brillante, quanto più elusivo della vera questione, la quale avrebbe alla fine ricondotto a sé con l’essenzialità e la drammaticità della sua presenza ogni tentativo di aggiramento, procrastinazione, accantonamento: la questione, cioè, degli assetti contrattuali.
Il ragionamento è in effetti persuasivo. Ma ne consegue che, al di là e prima dei tavoli formali, debba essere – con vibrata urgenza – avviato un confronto, una discussione, nella un po’ intorpidita comunità degli esperti di R. I., per veder di giungere a un compromesso possibile. Con molta umiltà, provo allora a declinare uno schema, assecondando non tanto le mie personali inclinazioni verso l’una o l’altra soluzione, quanto piuttosto (così recuperando l’antica praticaccia negoziale) cercando d’intercettare i punti di mediazione attingibili fra le diverse posizioni e vocazioni.


Ecco i punti principali del frame.
Primo. Trasformazione dell’attuale livello nazionale di categoria in livello delle garanzie, attraverso la definizione (generale o settoriale, ovvero, in carenza di intese sindacali, legale) dei minimi salariali e delle strutture regolative fondamentali del rapporto individuale di lavoro e delle relazioni collettive con cadenza triennale.
Secondo. Assunzione del livello contrattuale aziendale o distrettuale come livello centrale del sistema, con potestà regolative estese agli elementi tipici del rapporto di lavoro (orario, inquadramento, flessibilità, remunerazione fissa e variabile, etc.) e durata triennale.
Terzo. In assenza del livello contrattuale di cui al secondo punto, operatività di un livello contrattuale generale territoriale (su base regionale, provinciale o metropolitana), con competenze analoghe a quelle attualmente riservate al contratto nazionale di categoria e durata triennale.


Nella prospettiva della messa a regime dei nuovi assetti contrattuali (5-8 anni), possono essere previste fasi transitorie in cui i contratti nazionali di categoria prevedano la facoltà per singole imprese ovvero per singole aree territoriali di opting out, vale a dire l’adozione anticipata di regolazioni speciali in relazione a situazioni definite (start up, crisi o ristrutturazione, aree a scarsa o alta densità di occupazione ovvero a bassa agibilità del mercato del lavoro, aree in fase di deindustrializzazione/delocalizzazione, etc.). Va inoltre resa strutturale la parziale, ma significativa, esenzione fiscale di cui più sopra facevo memoria per le quote di remunerazione collegate all’effettivo conseguimento di condivisi risultati di profittabilità/produttività/qualità (esenzione che diviene totale nei casi di distribuzione degli utili ‘alla francese’ o nei casi partecipazione azionaria dei lavoratori).
Ai fini della politica dei redditi, i parametri di riferimento per gli incrementi della remunerazione di cui al punto terzo sono l’andamento del costo della vita nel territorio di riferimento, la situazione economica dei settori/categorie locali di appartenenza in termini di produttività/redditività media e le condizioni del mercato del lavoro locale in termini di tasso di occupazione/disoccupazione e di propensione alle flessibilità d’impiego della manodopera.
Ai fini della politica dei redditi, i salari minimi di cui al primo punto, che costituiscono adempimento all’art. 36 Cost., sono fissati aggiornandoli nella misura del 75% all’inflazione programmata così come definita per il triennio di riferimento dal DPEF e dalla relativa procedura di concertazione, e sono automaticamente adeguati all’inflazione effettiva a conclusione del triennio medesimo.
Nell’ipotesi di cui al secondo punto, non vige nessun tetto agli incrementi retributivi, ma scattano in automatico meccanismi di sospensione di alcuni istituti economici o di rallentamento della progressione salariale nei casi in cui si verifichino situazioni di grave criticità gestionale (perdite di bilancio, drastico ridimensionamento delle quote di mercato, etc.).


In una con le riforme degli assetti contrattuali, vanno stabilite procedure di regolazione delle controversie collettive di lavoro, che prevedano meccanismi ‘progressivi’ di conciliazione volontaria e di composizione arbitrale delle medesime con le relative clausole di raffreddamento, garanzie ‘democratiche’ (per es., referendum preventivo) nella proclamazione dello sciopero e forme di validazione erga omnes dei contratti collettivi discendenti da una rappresentanza sindacale certificata.
Per quanto concerne la P. A., l’ambito contrattuale rimane nazionale, riferito a ciascuna amministrazione o ente, e vengono negoziati i relativi trattamenti economico-normativi con cadenza triennale, avuto riguardo all’incremento del costo della vita medio su base nazionale (ovvero del diverso riferimento geografico dell’organizzazione de qua) e prevedendo una quota retributiva variabile (posizionata tra il 10 e il 20% del totale) riferita all’effettivo conseguimento di obiettivi di efficienza/qualità.


Un frame, e forse ancor meno: un appunto, giusto per riprendere una materia aratissima, e vessatissima, e disperatissima, certo: ma oramai guardata con un senso di tedio infastidito, quasi fosse un irrisolvibile, angustiante rompicapo. Temo invece che i percorsi che saranno intrapresi nei prossimi mesi, e la cui direzione è in parte già segnata (si pensi solo alla riduzione del cosiddetto cuneo fiscale, e ai suoi effetti sugli investimenti; all’incremento del costo del lavoro autonomo e atipico; ai provvedimenti contro il lavoro nero e di generalizzazione degli accertamenti di regolarità contributiva con i relativi indici di congruità; alla riforma previdenziale e al nuovo ruolo delle pensioni integrative; alla riforma della Pubblica Amministrazione; alle modifiche annunziate in materia di contratto a termine e di legge Biagi; alle liberalizzazioni), condurranno implacabilmente a rimetter mano agli assetti contrattuali. Con il rischio, nel caso d’inerzia delle parti sociali ‘proprie’, che il gioco venga assunto e condotto dal Governo e dal Parlamento: e l’esperienza italiana dice che gli esiti in tal caso sono assai spesso infelici.

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