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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Tra leggi, riforme e referendum: l’urgenza di una norma più giusta per (ri)costruire la coesione sociale

Tra leggi, riforme e referendum: l’urgenza di una norma più giusta per (ri)costruire la coesione sociale

di Massimo Mascini
20 Maggio 2024
in L'Editoriale
Cgil, in dieci anni raddoppiato il numero dei contratti ma i salari restano al palo

Ma è proprio vero che il sindacato è debole e le relazioni industriali troppo invecchiate e, in quanto tali, da rivisitare o magari da poterne fare a meno? La vulgata afferma che se lo sciopero è ormai inutile, perché nessuno lo fa, o lo fanno troppo pochi lavoratori, forse è meglio ricorrere alle leggi o ai referendum, che fanno parte di quella famiglia. Ragionamento che parte da un presupposto vero, il limitato interesse che gli scioperi, specie quelli non legati strettamente al proprio posto di lavoro, suscitano presso i lavoratori. Meglio ricorrere alle leggi, anche a costo di indebolire così la contrattazione, e quindi il sindacato, che si troverebbe alla fine però ancora più disarmato.

Il punto è che le leggi non sono a prescindere contro il sindacato, ma intervengono laddove la contrattazione non ce la fa. Senza scomodare la forza riformatrice, anche a favore del sindacato, di alcune leggi, prima tra tutte lo statuto dei lavoratori, basta ricordare il caso del testo unico su rappresentanza e contrattazione. I tre maggiori sindacati e tutte le organizzazioni datoriali nel 2014 misero a punto un sistema perfetto, che non poteva non funzionare, che avrebbe finalmente tolto tutti gli ostacoli alla libera e feconda contrattazione tra le parti sociali. Peccato che quell’accordo in dieci anni non sia mai stato applicato, perché le difficoltà burocratiche, le resistenze di chi non era intimamente convinto della bontà delle nuove norme, hanno avuto la meglio. Dieci anni non sono bastati per sapere chi rappresenta chi e, di conseguenza, chi può esercitare la contrattazione e chi no.

Una legge, quindi, può essere utile e non necessariamente indebolirebbe il sindacato. Il quale non è poi così debole come lo si vuole far apparire. Con le aziende mantiene un confronto importate, che produce buoni risultati. Non con tutte: alle piccole il sindacato non arriva o arriva stentatamente, ma già dialogare con le imprese medie e grandi è un risultato importante per la crescita del paese. Perché se il problema, come è noto, è la poca produttività, questa la si può far crescere solo, o quasi, con un intenso dialogo con il sindacato.

Esempio classico è la riduzione dell’orario di lavoro o della settimana lavorativa. Intervenire in questi campi significa far crescere l’azienda, e aprire una trattativa non significa delegare all’azienda la soluzione dei nodi, al contrario è con il dialogo e il confronto, in pratica con la contrattazione, che si trovano risultati utili, per le aziende che vedono crescere la produttività, per il sindacato che mantiene o amplia i diritti dei lavoratori.

La cosa importante allora è conservare e allargare il confronto, la contrattazione. Per la quale è stata esiziale la pratica della disintermediazione, il voler fare a meno dei corpi intermedi, sindacati e partiti in primis. L’emarginazione del sindacato e delle organizzazioni datoriali è stato un errore che tutta la società civile ha fortemente pagato. È scaduto il confronto, che era la reale forza del paese perché consentiva di individuare i problemi e così poterli risolvere.

Ce lo ha ribadito Luca Caretti, il segretario generale della Cisl del Piemonte, in una bella intervista che ha dato a Il diario del lavoro e che trovate nel nostro giornale. Il problema di questi anni è che, a differenza di altre passate stagioni, le persone sono poco interessate ai problemi, che pure hanno, e non dialogano, non si confrontano, mentre è proprio questo che servirebbe. Discutere all’interno del sindacato e tra i sindacati, con i lavoratori, con le aziende, per risolvere i problemi, per non nasconderli sotto il tappeto dell’indifferenza.

Poi ci sono gli errori, naturalmente, i ritardi, gli arretramenti, ma sono fisiologici, basta comprenderli per combatterli e superarli. Come, ad esempio, fare una battaglia sui licenziamenti senza accorgersi che il problema delle aziende non è quello di sbarazzarsi dei lavoratori, ma di trovarli. Il recruiting è il vero assillo per le imprese, che non sanno più dove andare a trovare i lavoratori di cui hanno bisogno. Stanno provando ogni strada, ma nemmeno andarli a cercare quando ancora studiano negli istituti tecnici è una soluzione, perché non rispondono. E, del resto, non è più un problema solo per gli specializzati, ormai non si trovano più nemmeno gli operai comuni, le terze categorie, quelli che una volta si chiamavano operai massa, perché erano tanti e a buon mercato.

Allora forse non è utile aprire una battaglia per ripristinare l’articolo 18, anche se poi, a ben vedere, perdere il posto di lavoro senza una buona ragione, la famosa giusta causa, è sempre un atto grave, insopportabile. E c’è anche da tenere presente che la carenza di manodopera non è un dato generalizzato nel paese. Ci sono sempre luci e ombre, luoghi dove la manodopera scarseggia e altri dove abbonda. Forse una norma più giusta, che guardi a tutti, può aiutare a costruire la coesione sociale.

Massimo Mascini

Massimo Mascini

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Direttore responsabile de Il diario del lavoro

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