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Home - Approfondimenti - La nota - La Perla, un’odissea senza fine: cinquanta lavoratrici senza cassa integrazione. Pisani (Filctem): il ministero del Lavoro ci dia risposte subito

La Perla, un’odissea senza fine: cinquanta lavoratrici senza cassa integrazione. Pisani (Filctem): il ministero del Lavoro ci dia risposte subito

di Elettra Raffaela Melucci
4 Febbraio 2025
in La nota
La Perla, Cgil e Filctem: necessario nuovo incontro al Mimit

PRESIDIO LAVORATRICI LA PERLA AL MISEMINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICOMANIFESTAZIONE PROTESTA

Dopo la sottoscrizione del protocollo di intenti che ha reso possibile l’apertura, il 24 gennaio, di un bando di gara per trovare un nuovo acquirente industriale per il Gruppo La Perla, sembrava che la vertenza fosse finalmente instradata verso una positiva (e definitiva) risoluzione. E invece no: adesso cinquanta dipendenti rischiano di restare fuori dal rilancio a causa di un buco nel sistema di ammortizzatori sociali. Una situazione “paradossale e inspiegabile da tutti i profili” afferma quasi incredula Stefania Pisani, segretaria della Filctem-Cgil di Bologna, interpellata da Il diario del lavoro, dove piuttosto quell’“adesso” è frutto di una consapevolezza condivisa dalle parti che però le istituzioni hanno continuato a ignorare nonostante gli indefessi appelli dei sindacati. Ed è effettivamente incredibile ripercorrere le tappe che hanno portato a questo ennesimo colpo di scena proprio all’ultimo miglio di una vertenza lunga 13 anni che ha coinvolto una delle realtà più importanti dell’haute couture italiana.

Le tre aziende italiane che fanno parte del Gruppo sono La Perla Manufacturing in amministrazione straordinaria, La Perla Management e La Perla Italia, che sono in liquidazione giudiziale e quindi sottoposte a un sistema normativo diverso. Le lavoratrici di La Perla Manufacturing hanno una cassa integrazione straordinaria per crisi “e in quel caso non abbiamo problemi di copertura, tant’è che siamo andati a proroga e saranno coperte fino a fine gennaio 2026”. Quindi hanno un ammortizzatore che le accompagna dal momento del bando al momento della vendita e anche al momento successivo che è quello del rilancio del Gruppo e dell’azienda. Le altre due divisioni, invece, La Perla Management e La Perla Italia, coinvolgono poco più di una cinquantina di lavoratrici così suddivise: circa quaranta sono collegate alla Management – dove ci sono tutte le funzioni di staff strettamente correlate all’attività che poi si concretizza con la produzione – e una decina sono le lavoratrici del retail di La Perla Italia. Essendo coinvolte queste cinquanta lavoratrici nella liquidazione giudiziale (detto altrimenti il fallimento) l’unico ammortizzatore previsto dalla normativa è la cassa per cessazione (ex decreto Genova) che non è uno strumento ammortizzatorio strutturale, ma viene finanziato di anno in anno dalla legge di stabilità ed è stabilito che la durata massima sono dodici mesi. “Questo è un tema a noi chiarissimo dal momento stesso in cui abbiamo firmato il primo accordo di cassa e che abbiamo sollecitato in diverse circostanze – sottolinea Pisani -. Se avessimo avuto la trazione in amministrazione straordinaria così come avevamo richiesto nei nostri ricorsi, è evidente che il problema sarebbe stato superato dal cambio della condizione giuridica delle aziende”. Ma dal momento che questo passaggio non è avvenuto, i due rami aziendali sono rimasti in liquidazione giudiziale.

Il rischio era stato già segnalato a più riprese dai sindacati presso i tavoli ministeriali – informalmente già da ottobre e poi dal 4 novembre in modo formale – “anche per accelerare sulla definizione del protocollo che era il presupposto di qualunque operazione”, sollecitando quindi la direzione generale degli ammortizzatori sociali, cioè il Ministero del lavoro, a trovare delle risposte “soprattutto perché se fossimo arrivati al protocollo, e quindi al bando di vendita, era evidente che, per quanto formalmente le aziende siano in liquidazione giudiziale, non sono destinate alla chiusura, ma a essere rilanciate”. A fronte di questa eccezionalità, quindi, servirebbe uno strumento ammortizzatorio che accompagni le lavoratrici dal momento in cui cessa l’ammortizzatore possibile almeno fino a quando l’azienda viene venduta. “Se non si fa questo le lavoratrici rimangono senza alcuna forma di sostegno economico e non sono nelle condizioni materiali di poter aspettare la vendita dell’azienda se non dando dimissioni per cercare un altro posto di lavoro”.

Un vero e proprio buco normativo che andrebbe colmato con una soluzione che per i sindacati è a portata di mano: “Dal nostro punto di vista – ribadisce Pisani – ci sarebbe l’accordo di transizione occupazionale”, contemplato in una relazione stilata anche grazie alla collaborazione dei dirigenti dell’Emilia Romagna che si occupano di ammortizzatori, ma non sembra essere il punto di vista del Ministero del lavoro, che pone interpretazioni applicative che non vanno in quella direzione. “Sono stati utilizzati dei soldi pubblici nella logica dell’ammortizzatore e si è raggiunto il risultato perché si è tolto un gruppo da una condizione di cessazione per metterlo sulla strada del rilancio. Ma una volta che gli ammortizzatori hanno raggiunto lo scopo non vengono date delle risposte. È assurdo, soprattutto di fronte all’impegno delle lavoratrici che hanno lottato dalla prima ora per far comprendere quanto è importante questa azienda per il sistema del Made in Italy”.

È soprattutto il Ministero del lavoro ad avere una responsabilità più cogente nel fornire delle risposte, perché “in un contesto di crisi come quello che stiamo vivendo, per di più nella moda” il rischio è di veder vanificare un duro lavoro collettivo di salvataggio aziendale. “Non è solo questione di tenuta sociale, che pure è importante, ma è anche di possibilità di reale rilancio dell’azienda. Queste competenze sono state suddivise in più aziende per ragioni che non hanno niente a che vedere con ragioni industriali”.

E poi c’è da considerare che si tratta di lavoro femminile, un delicato capitolo su cui il governo in carica (come quelli passati) insiste particolarmente. Nel caso di La Perla, poi, si tratta di “un lavoro femminile che vanta la sua competenza unica e se si perdono delle competenze, di quale rilancio parliamo? Perderle significa ricominciare da capo”. Il che sarebbe assolutamente incomprensibile, perché cambiare pelle a La Perla equivarrebbe perdere la corsetteria di alta gamma, l’unicità e settant’anni di progetti ed esperienza: un vero e proprio errore strategico. “Se in questo gruppo non riusciamo a far passare nella vendita tutte le professionalità sarà chiaramente l’ennesima operazione speculazione dove perdiamo l’azienda. Non abbiamo più i 1.400 dipendenti degli inizi degli anni 2000 – per dare una misura plastica di cosa ha comportato la gestione dei fondi – ma adesso ne abbiamo circa 200, ovvero proprio l’essenziale per riuscire a portare a casa il prodotto dalla progettazione, la realizzazione, la commercializzazione”. Proprio per questo occorre “trovare delle risposte prima che qualunque organizzazione sindacale lo ribadisca con forza, perché è un interesse di natura pubblica collettiva, non di parte. Nelle stesse ore in cui dovremmo gridare al mondo “finalmente siamo in vendita”, ci vediamo costretti a dover spostare l’attenzione su una risposta che dovrebbe essere di civiltà”.

Le scadenze degli ammortizzatori sociali sono fissate al 26 gennaio per la parte management e al 10 aprile per il retail. “Se si trova una soluzione per il management poi potrà essere slittato più o meno in automatico per La Perla Italia. Tra l’altro al tavolo del 14 gennaio abbiamo avuto garanzie da parte del ministero che delle risposte sarebbero state trovate, ma a oggi zero”. Il 10 febbraio, giorno della chiusura del bando, c’è l’incontro per la proroga di 12 mesi della cassa per cessazione: il 10 andremo a prorogare l’accordo per la parte management per i 25 giorni che avanzano dei dodici mesi, quindi dal primo di gennaio al 25, e ci sarà la discussione sul 26, quindi cosa succede dal 26 in avanti. Non possiamo aspettare il 10 aprile. Può essere anche uno strumento con un altro nome, ma deve esserci qualcosa che deve coprire, perché la finalità è quella”.

Sul fronte della vendita tace circa il nome di potenziali acquirenti del Gruppo, ma l’obiettivo resta quello di un soggetto in grado di presentare un solido piano industriale che garantista la tenuta occupazionale. Tra la chiusura del bando e l’assegnazione passerà del tempo (che in questi casi non è mai un dettaglio) e nel mentre c’è l’amministrazione straordinaria “che con tutte i limiti rispetto alle professionalità di cui può usufruire sta provando a tenere comunque accesa l’azienda immettendo nel mercato qualche prodotto sulla base degli ordinativi che riceve ed è tutto strettamente correlato a questo, anche perché i costi dell’Amministrazione straordinaria dovrebbero provare a rientrare per non mettere in difficoltà il recupero di crediti che pur c’è in queste procedure. Quella dei commissari nell’amministrazione straordinaria di provare a riattivare l’azienda con i minori costi possibili è un’operazione da funamboli”.

Il nodo da sciogliere resta il destino delle cinquanta lavoratrici: “Noi non molliamo, perché questo scempio non lo possiamo permettere. Questa è una battaglia che sta rimettendo il tema nell’economia reale al centro della discussione politica e che dovrebbe coinvolgere la globalità di un sistema complesso”.

E infine, un appello: “Invitiamo alla coerenza, perché bisogna che ci sia un raccordo con il Ministero del lavoro. Alla Calderone, che è una professionalità femminile, non può sfuggire questo tema ed è la ragione per cui a questo punto bisogna farlo uscire nell’opinione pubblica perché sarebbe veramente uno scandalo far cadere il lavoro incredibile fatto da tutti perché sfugge questo il dettaglio che le persone non campano d’aria. La realtà gliela sbattiamo in faccia”.

Elettra Raffaela Melucci

Elettra Raffaela Melucci

Elettra Raffaela Melucci

Redattrice de Il diario del lavoro

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