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Home - Approfondimenti - Analisi - Cosa ci insegna la vicenda di Terni

Cosa ci insegna la vicenda di Terni

di Fernando Liuzzi
4 Dicembre 2014
in Analisi
Cosa ci insegna la vicenda di Terni

Una vertenza durata più di 4 mesi. Quarantacinque giorni di sciopero a oltranza. Ventinove ore di ininterrotto negoziato conclusivo. E alla fine un accordo che soddisfa tutti: governo, azienda e organizzazioni dei metalmeccanici. No, non abbiamo riesumato un qualche episodio dalle cronache sindacali degli anni 70. Stiamo parlando di una vicenda attualissima, quella della Acciai Speciali Terni, che ha trovato un esito positivo nel primo pomeriggio di mercoledì 3 dicembre.

E infatti, a riprova che siamo nel terzo millennio e non nella seconda metà del ‘900, i protagonisti del prolungato conflitto, e dell’accordo che ad esso ha posto termine, non hanno affidato i loro giudizi alle agenzie di stampa, né hanno motivato le ragioni dell’accordo in un volantino da distribuire il giorno dopo davanti ai cancelli della fabbrica in questione. Più sommariamente, hanno condensato in un tweet i pensieri di ciascuno. “Un accordo sudato, un ottimo accordo. #italiariparte”, tuitta @matteorenzi, cioè il capo del governo. “#Ast Vertenza durissima, finale positivo”, scrive Marco Bentivogli, il neo segretario generale della Fim-Cisl. “Firmato accordo, si aprono nuove prospettive”, incalza Mario Ghini, segretario nazionale Uilm-Uil. “Nessun trionfalismo ma lotta lavoratori paga”, conclude Gianni Venturi, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil.

La lotta paga? Il linguaggio del dirigente Fiom – quello che è rimasto per terra tramortito dopo le manganellate immotivatamente distribuite dalle forze dell’ordine su un corteo di lavoratori ternani giunti nella capitale – potrà apparire fuori moda. Ma, a quanto pare, coglie nel segno.

Il 1° agosto l’Azienda aveva assunto una duplice iniziativa. Da un lato, apriva uno scontro con i sindacati, dando la disdetta agli accordi aziendali in essere. Dall’altro, comunicava l’avvio della procedura per la messa in mobilità di 550 dipendenti. Cosa, questa, particolarmente grave. Perché non si trattava solo del licenziamento di 550 lavoratori (scesi a 537 in un successivo piano presentato a ottobre), con i drammi personali e familiari conseguenti, ma della dichiarata volontà di ridurre di un quinto la forza lavoro attiva nel sito ternano (circa 2.800 addetti).

Agli occhi dei sindacati, queste due mosse aziendali traducevano in fatti concreti un primo piano presentato dalla Ast a metà luglio. Un piano improntato a una logica di risanamento strettamente finanziaria più che a finalità propriamente industriali e che, comunque, restava confinato in un orizzonte biennale. Dietro il piano i meno ottimisti fra i dirigenti sindacali credevano di poter leggere una reiterata volontà di disimpegno della ThyssenKrupp dalla Ast. Nell’ipotesi che il vero disegno della multinazionale tedesca fosse quello, tutt’altro che inedito, di far dimagrire oggi la Ast per renderla più appetibile per gli eventuali compratori cui fosse possibile cederla un domani.

Ora è abbastanza evidente che l’accordo raggiunto ieri al ministero dello Sviluppo economico, definito dall’amministratore delegato della Ast – l’inflessibile Lucia Morselli – come “l’accordo che tutti volevamo”, ribalta la logica del piano di luglio. Ciò è vero innanzitutto dal punto di vista produttivo. E questo sia perché il nuovo piano industriale ha una dimensione quadriennale, sia, e ancor più, perché la produzione minima prevista è di un milione di tonnellate di acciaio fuso all’anno. Il che implica, di per sé, la sopravvivenza di entrambi i forni attualmente in funzione, dal momento che la capacità produttiva di ognuno di essi non supera le 700-750mila tonnellate annue. Nella stessa direzione, ovvero in quella di una nuova scommessa industriale della ThyssenKrupp sulla Ast, va il potenziamento dell’area a freddo, la cui capacità produttiva dovrà crescere da 400mila a 550mila tonnellate.

Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. A Terni c’è grande soddisfazione, non solo tra gli operai e gli impiegati della Ast (che si esprimeranno con un referendum nei prossimi giorni). La sensazione, in città, è che la fabbrica si sia (nuovamente) salvata. Ed è indubbio che senza la grande unità tra i sindacati appartenenti a Cgil, Cisl e Uil (più Fismic e Ugl), così come senza la forte solidarietà tra i lavoratori del sito, spalleggiati dall’intera cittadinanza e appoggiati politicamente dalla Regione Umbria, la ThyssenKrupp non sarebbe tornata, in misura significativa, sui suoi passi.

Vi sono tuttavia almeno tre considerazioni che si impongono. La prima. Come abbiamo visto, i sindacati e il fronte che si è stretto attorno a loro possono tirare un sospiro di sollievo. Ma va detto che i lavoratori pagano un prezzo, sia pur contenuto, alla reiterata crisi della Ast. Tutti, in termini di reddito. Nel senso che il salario aziendale non è più azzerato, secondo l’originaria volontà dell’azienda, ma viene comunque ridotto. E come collettività, che viene ridimensionata dalle dimissioni volontarie di 290 dipendenti (incentivate con 80mila euro lordi a testa).

La seconda. In una fase in cui il nostro governo insiste sull’importanza della capacità del sistema-paese Italia di attrarre investimenti esteri, la vicenda della Ast sta lì a ricordarci quanto sia importante sapere chi detenga la maggioranza della proprietà di una data impresa. Perché non è vero che i soldi siano tutti uguali, purché siano soldi. Il proprietario, in fin dei conti, non è uno qualsiasi. E’ quello che comanda.

Cosa vogliamo dire? Dopo la fine delle partecipazioni statali, e dopo la conseguente privatizzazione della Finsider – la holding che raggruppava nel nostro paese l’acciaio pubblico – la collocazione della Ast all’interno della ThyssenKrupp sembrava ottimale. Cosa poteva essere più rassicurante, per il gioiello dell’acciaio italiano, che operare nell’ambito di una multinazionale il cui nome è un sinonimo di solidità?

Purtroppo, però, quando un’impresa compra un’altra impresa non compra solo impianti e macchinari, ma acquisisce anche i brevetti detenuti dalla seconda. E lo si vide bene nel 2004, quando la ThyssenKrupp si accorse, per così dire, di essere a suo tempo divenuta proprietaria del brevetto del lamierino magnetico, il più brillante fra gli acciai speciali progettati e prodotti dalla Ast. Soprattutto, il prodotto dotato di maggiori prospettive, essendo quello che viene impiegato nella fabbricazione di computers e di altre apparecchiature elettroniche.

Sia come sia, fu quello l’anno in cui la ThyssenKrupp decise di porre fine alla storia del pregiato lamierino a Terni, e di importarne la produzione in Germania. Paradossalmente, quella fase di crisi della Ast non fu dovuta dunque a problemi finanziari o a carenze di mercato ma, al contrario, alla qualità competitiva di un brevetto e del conseguente prodotto. E al fatto che il rapporto di proprietà è, anche, un rapporto di potere. In Italia non c’era stato chi, al momento giusto, avesse acquisito la Ast. In Germania, invece, c’era stato non solo chi aveva intuito le potenzialità dell’affare, ma chi aveva avuto la forza, finanziaria e industriale, per realizzarlo, comprandosi la Ast, annessi e connessi. Col risultato che abbiamo visto. Addio al lamierino made in Terni. Con le ovvie conseguenze del caso. Cancellazione di posti di lavoro e decrescita, certo non felice, della ricchezza prodotta.

E veniamo alla terza considerazione. Per uscire in qualche modo dalla vicenda del lamierino, la ThyssenKrupp si impegnò, nell’accordo raggiunto agli inizi del 2005, a potenziare l’altra linea di prodotto di cui la Ast va fiera, l’acciaio inossidabile, con un investimento di 500 milioni di euro. E per qualche anno, da questo punto di vista, le cose sono filate via lisce. Solo che, nel 2008, esplode la crisi economica globale. Che, in Europa, ha effetti su tutta l’industria manifatturiera e quindi anche sul mondo dell’acciaio.

Agli inizi del nuovo decennio, dunque, anche un colosso come ThyssenKrupp deve affrontare una fase di difficoltà. Fase da cui si propone di uscire ridimensionando alcune produzioni. Dove? In Germania? Il governo tedesco non la prenderebbe bene. Meglio all’estero. Ad esempio, in Italia. Nasce così l’idea di vendere l’impianto che produce a Terni il famoso acciaio inossidabile. Nel 2012 si fa avanti un candidato compratore che è già particolarmente forte nel settore: i finlandesi di Outokumpu. Ma qui si va a sbattere contro alcune delle regole che l’Unione europea si è data. Regole che meritano la qualifica che Romano Prodi affibbiò ad altre caratteristiche autoimposte dall’Unione a sé stessa: quella di essere fondamentalmente stupide.

Come è ampiamente noto, infatti, all’inizio della sua attività di regolatore economico sovranazionale, l’Unione europea diede vita a una normativa antitrust volta a favorire una concorrenza il più aperta possibile fra le imprese dei diversi stati aderenti. Idea nobile, ma viziata dalla totale incomprensione del fatto che il mondo è più vasto dell’area contenuta entro i confini dell’Unione stessa. In altri termini, la normativa antitrust a dimensione europea finisce per avere l’effetto non voluto di impedire la nascita di campioni continentali capaci di reggere la competizione contro i giganti nati e cresciuti in altre parti del mondo. Ed è proprio questo ciò che è accaduto nel caso di cui ci stiamo occupando. L’Autorità antitrust dell’Unione ritenne che se Outokumpu avesse acquisito gli impianti ternani, si sarebbe trovata in una posizione dominante sul mercato, tale da impedire l’ipotetica concorrenza fra imprese europee produttrici di acciaio inossidabile. ThyssenKrupp non è quindi riuscita a disfarsi della Ast e ha dovuto riprendersela. Salvo a cercare poi di farla dimagrire con le buone o con le cattive.

Anche questa nuova crisi della Ast, così come quella del 2004-2005, non rientra quindi nei canoni delle classiche crisi industriali derivanti da obsolescenza delle tecnologie impiegate rispetto alle capacità innovative mostrate dalla concorrenza, da cali della domanda o da motivazioni finanziarie di varia origine. Il prodotto è ottimo, le tecnologie sono adeguate, le maestranze affidabili. Ma errori regolativi in ambito europeo da un lato, e la sottocapitalizzazione delle imprese nazionali del settore dall’altro, impediscono di inserire la Ast dentro un guscio proprietario capace di assicurare alle antiche acciaierie ternane quella dimensione di cui avrebbe bisogno per affrontare la competizione globale.

Morale della favola. I risultati ottenuti con una durissima lotta che ha visto profondamente uniti, lavoratori, sindacati, popolazione e istituzioni locali sono ampiamente superiori a quelli che erano ipotizzabili all’inizio della vertenza. Anche questa volta la Ast ce l’ha fatta e ha di nuovo una prospettiva davanti a sé. Il punto, però, è che, nonostante la dimensione quadriennale del piano aziendale, il futuro, dentro una crisi globale che è ancora ben viva in Europa, resta incerto. Al di là della maggiore o minore capacità di affrontare caso per caso le crisi delle nostre imprese siderurgiche – dalla Ferriera di Servola all’Ilva di Taranto, passando per la ex Lucchini di Piombino – ciò che è mancato ai governi che si sono succeduti in questi anni è una visione d’insieme delle specificità e della funzione della produzione d’acciaio nel nostro paese. Oltre alla volontà di aprire almeno un dibattito sulla necessità di dare una dimensione seriamente europea alla politica industriale dei paesi dell’Unione. Se l’attuale governo cominciasse a lavorarci, non sarebbe una cattiva idea.

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